Reclutamento e strategie di adattamento al lavoro dei minatori italiani in Belgio. A 75 anni dall’accordo italo-belga, l’attualità della ricerca di Flavia Cumoli per “Storicamente” dell’Università di Bologna.
di FLAVIA CUMOLI
La centralità del nesso tra movimento di popolazione e contratto di lavoro ha contraddistinto l’emigrazione italiana, assistita dall’immediato dopoguerra fino all’entrata in vigore dei principi teorici della libera circolazione della manodopera, ma l’intensità e le modalità della mobilità dei lavoratori sono mutate nel tempo e nello spazio, sia in relazione alle differenti congiunture economiche che in relazione all’evoluzione delle politiche migratorie italiane ed estere.
Gli anni della ricostruzione rappresentano, sotto questi due aspetti, uno dei periodi di maggiore diffusione dell’esodo clandestino, così come della ripresa delle dinamiche autonome delle reti migratorie [1]. Nel corso dell’intero periodo postbellico l’Europa occidentale, ancora sconvolta dai danni della guerra ma già proiettata verso la ricostruzione, è stata percorsa da varie, ampie ed eterogenee migrazioni internazionali. I processi di sviluppo in ciascun Paese sono stati condizionati, e via via modificati, da questi intensi flussi di manodopera che hanno scavalcato i confini dei mercati del lavoro nazionali.
In Italia, dopo la forte contrazione tra le due guerre mondiali, all’indomani della liberazione la ripresa dei flussi emigratori si poneva come uno sbocco necessario all’eccedenza di popolazione, uno strumento strategico primario per affrontare la ricostruzione. I flussi emigratori si diressero principalmente verso i paesi dell’Europa centrale e settentrionale – Francia, Belgio, Svizzera, Gran Bretagna e Germania – dove il bisogno di manodopera a basso costo si sposava con l’esigenza italiana di combattere la disoccupazione.
Tuttavia, proprio gli anni dell’immediato dopoguerra furono uno dei periodi di maggiore difficoltà per l’emigrazione italiana che, pur di utilizzare le poche opportunità d’impiego disponibili all’estero, dovette adattarsi spesso a scadenti condizioni di vita e lavoro [2]. Si trattava infatti di un’emigrazione prevalentemente temporanea, segnata più che in passato da una legislazione rigida e disseminata di vincoli che rendevano la mobilità delle persone sempre più controllata e la loro permanenza all’estero sempre più precaria [3].

DISMISSIONI. Bois du Cazier, uno dei 4 antichi siti minerari localizzati in Belgio, nella regione della Vallonia, dismessi e ora Patrimonio Unesco. Foto: Luc Viatour.
L’emigrazione verso le miniere di carbone del Belgio fu una delle esperienze più difficili e, allo stesso tempo, uno degli sbocchi più promettenti di quegli anni. Il Belgio fu, infatti, insieme con le regioni minerarie francesi, il primo sbocco europeo dell’immediato dopoguerra. I primi contingenti di minatori italiani vi giunsero nel giugno e nel settembre del 1946 e il trattato d’emigrazione stipulato tra le due nazioni era allora il solo in vigore, accanto a quello stipulato con la Francia. In quegli anni di scarsità e di contingentamento internazionale delle fonti energetiche, il carbone belga era infatti ritenuto provvidenziale per la ricostruzione dell’Europa, del Belgio e dell’Italia stessa: proprio il trattato d’emigrazione assicurava al Paese una determinata quantità di carbone per ogni minatore inviato in Belgio, e anche per ciò era considerato vitale.
A fronte di questa favorevole opportunità di attenuazione della disoccupazione e di approvvigionamento energetico stava, però, ciò che tanto la propaganda immigratoria belga, quanto quella emigratoria italiana preferivano tacere, vale a dire le drammatiche condizioni di vita nei bacini industriali del Belgio e di lavoro nelle strutture ormai logore della sua industria estrattiva, la cui agonia era solo apparentemente mascherata dall’accentuata fase di domanda di carbone durante la guerra e nella peculiare congiuntura della ricostruzione europea.
In realtà la macchina dell’industria mineraria nei bacini meridionali del Belgio era mantenuta artificialmente in vita dall’intervento e dalle sovvenzioni del governo, ma venne rapidamente sopraffatta dalla caduta dei prezzi del carbone nei mercati mondiali alla fine degli anni ’50 [4]. La chiusura definitiva delle miniere si rivelò un disastro senza precedenti che travolse le secolari strutture dei bacini industriali valloni e, con esse, le decine di migliaia di lavoratori immigrati che con il loro lavoro a basso costo avevano reso possibile il vano tentativo di risollevare l’industria estrattiva del Belgio dalla sua profonda e ineluttabile crisi.
Il vicolo cieco del carbone: declino economico e spopolamento della Vallonia
All’indomani della seconda guerra mondiale la produzione annuale di carbone era stagnante in tutta la Vallonia, mentre era in aumento nel bacino fiammingo del Limburgo, dove la produttività era più forte. Malgrado l’alta congiuntura, l’industria carbonifera vallona mostrava, già alla fine degli anni ’40, i segni del suo irrimediabile tramonto.
In realtà la questione dell’invecchiamento e del superamento delle strutture dell’industria estrattiva vallona era all’ordine del giorno sin dalla fine degli anni ‘20, anche se la necessità di rimettere velocemente in moto gli insediamenti distrutti dalla prima Guerra Mondiale, in modo da poter approfittare degli ampi sbocchi e dei prezzi vantaggiosi legati ai bisogni della ricostruzione, avevano giustificato il mantenimento dei vecchi impianti e la perpetuazione dell’orientamento industriale tradizionale, che sin dall’inizio del XIX secolo era rimasto ancorato al carbone, all’acciaio e al settore tessile.
Nonostante l’evidente incapacità delle più vecchie miniere belghe di sostenere la concorrenza dei paesi circostanti, ragioni simili vennero riprese all’indomani della seconda Guerra Mondiale, quando le miniere di carbone rischiavano la paralisi per mancanza di addetti. In seguito all’evoluzione del mercato del lavoro si era infatti verificato un esodo dei lavoratori belgi dai mestieri più rudi e faticosi verso quelli più specializzati, meno pesanti e più lucrativi.
Il carbone era ad ogni modo esaltato a simbolo della nazione dal governo di unità nazionale del dopoguerra, che aveva intrapreso una dinamica politica energetica. La cosiddetta “battaglia del carbone” era stata lanciata nel febbraio del 1945 dal primo ministro Achille Van Acker, con l’obiettivo di convincere il maggior numero di cittadini belgi a scendere nei pozzi ed a “tornare” a lavorare in miniera, ma la propaganda governativa non era riuscita ad ottenere i risultati sperati. Nonostante le minacce di coscrizione obbligatoria, gli incentivi e le vantaggiose condizioni proposte dallo Statut de mineur – miglioramento di salari, pensioni, ferie, costruzione di nuove case operaie – i belgi non erano infatti più disposti a scendere nelle miniere, sia per la durezza del lavoro, sia soprattutto per la sua pericolosità [5].

MINIERE. Immagine d’archivio dal Centro Storico Minerario Lewarde. ll centro storico di Lewarde è il più grande museo minerario di Francia. Sono proposte visite guidate condotte da ex minatori.
Sebbene i tassi di disoccupazione non fossero indifferenti, le capacità di reclutamento di minatori nel mercato del lavoro interno restavano molto basse e il ricorso alla manodopera straniera in Belgio – più che soluzione ad una presunta penuria di manodopera – si presentava come “une stratégie correspondant à des intérêts économiques et sans rapport avec le marché global de l’emploi” [6]. Il governo aveva infatti fissato il prezzo di vendita del carbone ad un livello deliberatamente basso al fine di rilanciare il consumo interno e soprattutto alimentarne il commercio con l’estero. Era questa una manovra azzardata che ha finito per favorire i vecchi charbonnages a scapito di quelli più produttivi, esentandoli dall’investire in una necessaria modernizzazione degli impianti.
Fu solo nel 1951, in seguito alla creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), che questa politica di bassi prezzi venne abbandonata a favore di un programma, tanto doveroso quanto tardivo, di modernizzazione e rinnovamento degli stabilimenti ed aumento della produttività, sotto il patrocinio della Fédération Charbonnière de Belgique (Fédéchar). Ma durante il quinquennio 1944-1948 l’imperativo di produrre in fretta e in grande quantità per poter approfittare della forte domanda internazionale aveva fatto optare per una soluzione più immediata: l’approvvigionamento massiccio di una manodopera a basso costo disposta ad accettare condizioni di vita e lavoro che la maggioranza dei belgi rifiutavano.
La carenza di lavoratori, catastrofica all’inizio del 1945, aveva portato il governo belga a sollecitare inizialmente il trasferimento di prigionieri di guerra tedeschi per i lavori di fondo, ma vista la debole produttività dei prigionieri di guerra e l’avvicinarsi del loro rimpatrio, previsto per il 1947, le autorità pubbliche si rivolsero verso le “Displaced Persons” (D.P.) – i profughi di guerra che vivevano ancora nei campi di sfollamento – ed il reclutamento di operai stranieri, ingaggiati in primo luogo nell’Italia reduce dall’esito disastroso della guerra [7].
In ogni caso, il governo belga aveva adottato una politica di immigrazione flessibile e a breve termine della manodopera, una sorta di stop and go della forza lavoro, legato agli andamenti del mercato: ogni qualvolta si minacciava un rallentamento dell’attività economica ed un ristagno dell’occupazione interna, l’immigrazione veniva bloccata e i contratti non rinnovati [8]. Ciò nonostante nel 1947 il governo italiano aveva firmato un secondo accordo, che ha assicurato un cospicuo afflusso di lavoratori fino alla terribile catastrofe mineraria del Boisdu-Cazier a Marcinelle dell’8 agosto 1956, quando l’immigrazione ufficiale dall’Italia venne sospesa e le autorità belghe rivolsero il reclutamento verso nuovi paesi esportatori di manodopera.

MINIERE. Cartolina storica: un pozzo minerario di Tardivières a Mouzeil, concessione di Les Touches. Tra i traumi principali degli emigrati, predominava quello dell’impatto con le durissime condizioni di lavoro.
Questa continua concorrenza al ribassamento dei prezzi mise il governo e i produttori belgi in serie difficoltà. La stragrande maggioranza delle miniere operavano in condizioni estremamente difficili: venature di basso spessore, ormai consumate e difficilmente agibili, sommate a salari relativamente elevati comportavano costi di produzione molto alti e tassi di produttività contenuti. Già alla fine degli anni ’40 era ben chiaro alle istituzioni che, se si fossero lasciati giocare liberamente i meccanismi del mercato, le miniere di carbone in Belgio si sarebbero ritrovate in completa inattività nell’arco di qualche anno.
La crisi si rivelò incontestabile solo alla fine degli anni ’50. Sommata a quella di alcuni settori metallurgici, provocò una caduta progressiva dell’impiego industriale nel Sud del Paese, quando invece nuove attività minerarie e soprattutto industriali si stavano sviluppando nel Nord. Nonostante la moratoria di cinque anni e gli alti sostegni concessi dal governo nazionale e dalle istituzioni europee al fine di potersi adattare al piano di risanamento previsto dalla nascente Comunità Economica Europea (CEE), la Vallonia vide la chiusura di 19 tra il 1957 ed il 1961. Decine di migliaia di minatori persero allora il loro impiego: da 81.000 unità nel 1957 si passò alle 39.000 unità del 1961 [9].
La crisi carbonifera fece vacillare nel suo insieme l’economia vallona, scavalcando il settore minerario e comportando molteplici effetti a catena sugli altri settori dell’industria pesante che provocarono una situazione di disoccupazione più o meno diffusa e latente e, con essa, una moltitudine di difficoltà sociali. Il fenomeno demografico ha rispecchiato questa involuzione. Alla fine della seconda Guerra Mondiale la popolazione vallona contava meno di 3 milioni di abitanti, una cifra inferiore di quella del censimento del 1930, e l’andamento demografico vallone appariva come uno dei più deboli d’Europa. Solo i movimenti immigratori hanno saputo giocare un ruolo essenziale nel mantenimento dell’equilibrio demografico.
Nel 1962, un celeberrimo rapporto sulla situazione demografica della regione commissionato dal Conseil Economique Wallon – Le Rapport Sauvy – attirò l’attenzione dell’opinione pubblica sui pericoli rappresentati dall’invecchiamento della popolazione e dal crescente squilibrio tra le classi d’età: la crescita dei costi di sicurezza sociale e delle pensioni era destinata a pesare in maniera sempre più intollerabile sulle spalle di una popolazione attiva sempre meno numerosa.

MINIERE. Particolare del sito di Bois du Cazier a Marcinelle, in Belgio. Luogo della grande tragedia mineraria nel 1956, offre un percorso museale dedicato al carbone e all’acciaio.
Per fermare questo processo, il demografo francese Alfred Sauvy suggeriva una serie di misure politiche di sostegno delle nascite e, soprattutto, una strategia di attiva perpetuazione dei flussi immigratori, attraverso politiche di aiuto dei ricongiungimenti familiari e di stabilizzazione delle famiglie dei lavoratori immigrati. Se in un primo momento erano reclutati esclusivamente lavoratori celibi, nel corso degli anni ‘50 le politiche immigratorie vennero così indirizzate a favorire l’arrivo di famiglie.
Sebbene la crisi carbonifera avesse comportato un forte rallentamento e in alcuni casi la sospensione del reclutamento di operai stranieri per le miniere, l’immigrazione italiana era divenuta un mezzo indispensabile per porre rimedio a deficienze di ordine demografico [10]. Al di là della sua primaria determinazione di natura economica – vale a dire la soddisfazione dei bisogni immediati di manodopera – la sfavorevole evoluzione della struttura demografica aveva insomma reso il bisogno immigratorio quasi permanente. Un passaggio, questo, che oltre a conciliarsi con un mutamento nei progetti di vita dei migranti, ha implicato una trasformazione nelle politiche immigratorie e del reclutamento.
Da questa concisa panoramica si evince come l’apporto della manodopera straniera abbia giocato un ruolo economico essenziale nella rimessa delle miniere a pieno rendimento durante la seconda metà degli anni ’40. Si trattava nondimeno di una ripresa rapida e congiunturale, che non tardò a rivelare il proprio carattere effimero quando, con l’ingresso nella CECA, nei primi anni ’50, l’industria mineraria belga dovette affrontare la concorrenza diretta dei paesi vicini, dove la ricostruzione era andata di pari passo con il rinnovamento dei settori industriali.
La questione del carbone ha senza dubbio rappresentato uno dei problemi più complessi per il Belgio degli anni ’50. Tanto dal punto di vista della domanda, quanto da quello dell’offerta, erano sopraggiunti mutamenti essenziali. In primo luogo, il consumo di famiglie ed imprese era sempre meno orientato verso il carbone, laddove la domanda di prodotti petroliferi cresceva in maniera estremamente rapida. D’altro lato, il carbone straniero era riuscito ad imporsi anche nel mercato belga grazie ai suoi prezzi poco elevati, legati all’esistenza di riserve più recenti ed abbondanti e di costi di trasporto relativamente bassi.
Tra mobilità assistita e catena spontanea: meccanismi dell’immigrazione italiana in Belgio
La stagione migratoria del dopoguerra era stata aperta dall’accordo bilaterale del 1946, che prevedeva la «deportazione economica» verso il Belgio di centinaia di migliaia di italiani. La debolezza della cooperazione tra i due governi nella gestione del fenomeno migratorio fu evidente sin dall’entrata in vigore del trattato, che registrò da subito una percentuale di rimpatri molto alta tra i contingenti di emigranti, sebbene la quantità di partenze restasse altissima [11], come dimostrano i flussi dell’emigrazione italiana in Belgio.
Che l’accordo bilaterale fosse composto da un insieme di provvedimenti squilibrati, a svantaggio del governo italiano e soprattutto dei lavoratori immigrati, è cosa ampiamente dimostrata dalla storiografia [12]. Già nei meccanismi e nelle pratiche del reclutamento erano infatti contenute le fondamenta della direzione belga dell’intero apparecchio migratorio. Ufficialmente, erano gli uffici di collocamento dei singoli comuni a doversi occupare della ricerca – di preferenza fra i disoccupati iscritti – dei candidati per l’emigrazione, la cui età massima era fissata tra 35 e 40 anni. Le offerte di impiego pervenivano loro dal Ministero del Lavoro, che li riceveva direttamente dai datori di lavoro belgi.
Nella pratica vedremo come le singole miniere avessero organizzato un sistema parallelo di reclutamento sul posto che permetteva loro di privilegiare candidati politicamente inoffensivi ed originari di regioni precise. In entrambi i casi, i candidati prescelti venivano sottoposti ad una prima visita medica presso l’ufficio sanitario del comune di residenza. I futuri emigranti venivano poi inviati presso l’Ufficio Provinciale del Lavoro per un’ulteriore visita di controllo, che certificasse l’adattabilità dei candidati ai lavori di fondo.
I lavoratori la cui candidatura era ritenuta valida erano allora inviati al Centro per l’Emigrazione in Belgio di Milano, ubicato nei sotterranei della Stazione Centrale. Lì sostavano qualche giorno, in condizioni di totale promiscuità, in attesa dei convogli settimanali e, prima di tutto, della decisone finale che seguiva all’ulteriore visita della Mission Belge d’Immigration e al controllo incrociato della polizia belga e italiana.
Teoricamente la Sûreté Belge, che operava a Milano, non poteva operare apertamente, nel senso di una selezione personale degli individui ma, nella realtà, molti lavoratori agricoli che avevano partecipato all’occupazione delle terre vennero rinviati al Ministero Italiano del Lavoro come «indesiderabili». Secondo Fédéchar la selezione dei lavoratori doveva infatti garantire che questi ultimi fossero, oltre che «elementi tecnicamente capaci» e fisicamente adatti al tipo di lavoro al quale erano destinati, anche adeguati all’ambiente in cui avrebbero dovuto vivere e confacenti a «rappresentare degnamente» i lavoratori italiani all’estero.

CARTOLINA STORICA. Il pozzo minerario di Tardivières a Mouzeil, concessione di Les Touches.
Anche per ovviare a questa selezione, che veniva contestata dalle autorità italiane, gli intermediari delle miniere che operavano direttamente in Italia avevano optato, al fine di assicurarsi una manodopera calma e affidabile, per il reclutamento degli emigranti nei villaggi attraverso il filtro delle reti parrocchiali e delle raccomandazioni delle opere vaticane. Anche nel corso del viaggio verso i bacini industriali del Belgio, che poteva durare quasi 52 ore, gli immigrati erano scortati da agenti in incognita incaricati di individuare gli elementi agitatori. Al momento dell’arrivo in Belgio venivano poi scaricati sui binari riservati ai treni merce e convogliati nei diversi charbonnages su autocarri solitamente utilizzati per il trasporto del carbone. Qui erano sottoposti all’ultimo, definitivo, esame da parte del responsabile medico della miniera.
Nel caso l’immigrato fosse dichiarato inadatto al lavoro sotterraneo poteva essere occupato in superficie o convogliato verso altri settori industriali, ma nella maggior parte dei casi era dapprima rinchiuso nella caserma del Petit-Chateau di Bruxelles, poi rimpatriato. Quando invece l’operaio era ritenuto adatto al lavoro di fondo, il permesso di lavoro B, della durata di un anno rinnovabile, e che vincolava il lavoratore a cinque anni di attività ininterrotta nel settore minerario – pena l’espulsione dal Belgio – entrava in vigore, e con esso tutta una serie di problemi inattesi.
Tra i traumi principali che attendevano gli emigrati al loro arrivo nei bacini minerari predominava quello dell’impatto con la tipologia e le condizioni di lavoro. La prima “discesa al fondo” era, per uomini totalmente inesperti del mestiere, uno choc tale da impedire a molti di scendere una seconda volta. I manifesti affissi in Italia infatti pubblicizzavano il “lavoro sotterraneo nelle miniere belghe” senza specificarne i dettagli.
Fino alla metà degli anni ’50 inoltre, il contratto tipo non prevedeva alcun periodo iniziale di formazione professionale e i lavoratori italiani venivano spediti ad apprendere il mestiere direttamente al fondo, senza alcuna precauzione, né la conoscenza della lingua. Le conseguenze di questa inesperienza non erano solo psicologiche. A causa della loro scarsa qualificazione, i salari erano nettamente inferiori a quelli sperati: i minatori ricevevano infatti un salario composto da una parte fissa ed una parte proporzionale alla loro produzione, un sistema che, esortando gli operai all’aumento smisurato del rendimento, aumentava la pericolosità del mestiere di abatteur.
Tra le altre principali delusioni erano le deprecabili condizioni in cui i minatori italiani in Belgio vennero inizialmente alloggiati. Raccolti nei campi di lavoro utilizzati per i prigionieri di guerra durante il conflitto, prostrati dalla durezza del lavoro e delusi dalle difficoltà nel pervenire ai guadagni promessi e sperati, molti immigrati non riuscirono a superare l’impatto con la miniera, venendo così segnalati alla polizia degli stranieri per rottura «ingiustificata» del contratto, mentre molti di quelli che riuscirono a superare il trauma dell’impatto iniziale si ritennero comprensibilmente “venduti” dall’Italia per qualche sacco di carbone.

PATRIMONIO UNESCO. Il Bois du Cazier a Marcinelle è parte del patrimonio dell’Umanità riconosciuto dall’Unesco.
I flussi si mantennero tuttavia continui e regolari fino alla catastrofe mineraria di Marcinelle che, con i suoi 262 morti di cui 136 italiani, colpì duramente l’opinione pubblica, spegnendo definitivamente ogni entusiasmo verso l’ emigrazione italiana in Belgio [13]. Percepita come sacrificio collettivo, la tragedia di Marcinelle segnò la fine dell’immigrazione ufficiale e degli accordi bilaterali tra il Belgio e l’Italia. Ma se il governo belga non faticò a trovare altri mercati per l’importazione organizzata della manodopera, firmando accordi bilaterali prima con la Spagna e la Grecia, poi con il Marocco e la Turchia, la storia dell’emigrazione italiana in Belgio non si è fermata al 1956.
Nella seconda metà degli anni ’50 e nel corso di tutto il decennio successivo i flussi migratori familiari e individuali continuarono ad alimentare la comunità italiana del Belgio fino a raggiungere la cifra di 300.000 individui nel 1970. Per quanto il meccanismo del reclutamento fosse rapido ed organizzato, sin dalla firma degli accordi bilaterali il patronato minerario si era infatti mostrato insoddisfatto della troppo sommaria selezione praticata dai canali ufficiali, compromessa dagli elevati tassi di rimpatrio dei minatori ingaggiati, che comportavano altri costi per il rientro e soprattutto una gravosa instabilità della forza lavoro, non senza importanti ripercussioni per la produzione.
Le pratiche di reclutamento della manodopera italiana si erano dunque moltiplicate nel corso degli anni, affiancando al reclutamento gestito dagli uffici di collocamento quello protetto e «clientelare» che operava o attraverso le liste di nominativi fornite agli agenti delle miniere da parrocchie e amministrazioni comunali o, più spesso, per mezzo delle catene di richiamo costruite a partire da minatori già ingaggiati che si erano dimostrati affidabili. Questa pratica molto diffusa, prendeva forma in seguito a contatti stabiliti da minatori impiegati e residenti in Belgio con membri della propria famiglia o del proprio villaggio rimasti in Italia, alimentando così importanti fenomeni di raggruppamento etnico altamente circoscritti nei villaggi minerari della Vallonia.
Come già osservato da J. S. MacDonald in un pionieristico studio sull’immigrazione in Australia, la funzione manifesta di rigide burocrazie e politiche migratorie poteva così paradossalmente risultare in un rafforzamento della funzione latente delle reti informali [14]. Le carte della S.A. des Charbonnages de Bois-du-Luc confermano questa tendenza: era la stessa direzione della miniera a stilare la lista dei nominativi dei candidati minatori all’Association Charbonnière du Centre, che sarebbe poi stata trasmessa ai corrispondenti Uffici Provinciali del Lavoro in Italia, non il contrario [15].
Questo cambiamento nei criteri di selezione aveva per di più comportato un mutamento delle regioni di reclutamento della manodopera. Se inizialmente le miniere si rifiutavano di assumere “des ouvriers originaires des provinces du Sud de l’Italie qui ne conviennent nullement au travail des mines” [16], col passare degli anni un attento esame delle ragioni di abbandono del mestiere tra i minatori che avevano lasciato le miniere e il Belgio, aveva fatto emergere una più stretta interdipendenza tra l’inadattabilità al lavoro in miniera e la professione di provenienza.

I lavoratori che avevano avuto precedenti esperienze nell’industria mostravano infatti alti tassi di abbandono, a causa di un forte rifiuto psicologico delle condizioni di lavoro e dell’ambiente minerario, mentre tra i più adattabili alla professione di minatore figuravano i lavoratori provenienti dall’agricoltura e, ovviamente, quelli originari delle regioni a tradizione mineraria [17]. Questo andava inevitabilmente a detrimento delle regioni settentrionali, teatro di quel processo di rapido sviluppo industriale che oltre tutto comportava una sempre minor capacità competitiva del mercato belga dell’emigrazione, spostando la preferenza di reclutamento verso le campagne del Sud e le regioni ex-minerarie, in particolare la Sicilia, la Sardegna e le Marche.
A partire dalla metà degli anni ’50, inoltre, i charbonnages avevano intrapreso una politica tesa a garantire una maggiore stabilità della manodopera immigrata: da un lato, l’intermediazione di operai già impiegati nell’ingaggio di nuovi lavoratori tutelava dall’instabilità di questi ultimi; dall’altro, la promozione dei ricongiungimenti familiari tendeva a normalizzare la vita privata – e di conseguenza professionale – dei minatori. Proprio il permanere e l’affermarsi di queste pratiche migratorie individuali, al di là degli accordi bilaterali, ha permesso all’immigrazione italiana di mantenere la sua preponderanza nei bacini industriali valloni.
Forti cambiamenti erano peraltro avvenuti all’interno delle sue strutture demografiche e sociali: nel corso degli anni ’50 infatti, mano a mano che le regioni dell’Italia settentrionale si industrializzavano ed urbanizzavano, la popolazione italiana immigrata in Belgio si meridionalizzava, soprattutto in relazione alla maggiore proporzione di ricongiungimenti familiari. Mentre tra gli immigrati provenienti dalle regioni settentrionali il numero dei celibi rimaneva superiore a quello degli ammogliati, tra gli immigrati provenienti dal Sud i tassi di padri di famiglia rimanevano preponderanti.
Se avere famiglia significava inizialmente un maggior invio di rimesse in Italia, questo fattore costituì in seguito un incentivo per il lavoratore a stabilirsi là dove aveva trovato sicurezza di guadagno.
NOTE
[1] S. Rinauro, Il cammino della speranza. L’emigrazione clandestina degli italiani nel secondo dopoguerra, Torino, Einaudi, 2009.
[2] M. Colucci, Lavoro in movimento. L’emigrazione italiana in Europa 1945- 1957, Donzelli, 2008.
[3] E. Pugliese, L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne, Bologna, il Mulino, 2002.
[4] A. S. Milward, Coal and the Belgian Nation, in Id., The European Rescue of the Nation-State, Berkley, University of California Press, 1992, 47-118.
[5] J. L. Delaet, Les Belges ne veulent plus descendre, Charleroi, Archives de Wallonie, 1996, 15-29.
[6] A. Morelli, L’appel à la main d’oeuvre italienne pour les charbonnages et sa prise en charge à son arrivée en Belgique dans l’immédiat après-guerre, in «Revue Belge d’Histoire», XIX, 1-2, 1988, 85.
[7] F. Caestecker, Displaced Persons, a forgotten group of forced migrants, in corso di pubblicazione. Sull’esperienza dei D.P. cfr. S. Salvatici, Senza casa e senza paese: profughi europei nel secondo dopoguerra, Bologna, il Mulino, 2008.
[8] A. De Clementi, Le legislazioni nei paesi d’arrivo, in P. Bevilacqua, A. de Clementi, E. Franzina, Storia dell’emigrazione italiana, I, cit., 421-437; J. L. Delaet, Cinquante mille Italiens. La main d’oeuvre italienne dans les charbonnages de 1946 à 1958, in «Siamo tutti neri!» Des hommes contre du charbon, Seraing, Institut d’histoire ouvrière économique et sociale, 1998, 133-139.
[9] C. Vandermotten, Tendances longues de l’évolution de la production, de l’emploi et de la productivité industriels en
Belgique: 1880-1978, in «Cahiers économiques de Bruxelles», 86, 1980, 266.
[10] L. Bauwir, Une politique active d’immigration est indispensable en Wallonie, in «Revue du Conseil Economique Wallon», 60-61, 1963, 22-38.
[11] La situazione dell’immigrazione in Belgio, in «Bollettino quindicinale dell’emigrazione», 4, 25.2.1949, 69-70.
[12] M. Colucci, Lavoro in movimento, cit., in particolare le pagine 136-153. Cfr. anche A. De Clementi, «Curare il mal di testa con le decapitazioni». L’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra. I primi dieci anni, in «900», 8-9, 2003, 11-27.
[13] Sul disastro del Bois-du-Cazier si vedano F. Dassetto, M. Dumoulin (dir.), Mé- moires d’une catastrophe: Marcinelle, 8 août 1956, Louvain-La-Neuve, CIACO, 1986.
[14] J. S. MacDonald, L. D. MacDonald, Italian Migration to Australia: Manifest Functions of Bureaucracy versus Latent Functions in «Journal of Social History», III, 3, 1970, 249-275.
[15] S.A. des Charbonnages de Bois-du-Luc, Liste nominative des candidats mineurs italiens pour lesquels une invitation leur indique la façon de procéder pour venir travailler à Bois-du-Luc, 1952, in Archives du Musée de la Mine de Bois-du-Luc.
[16] Fédéchar, Commission spécial de la main d’oeuvre italienne, Recrutement en Italie, 1947, in Rjiksarchief te Hasselt (RH), Fonds Fédéchar, 1521. Bescheiden betreffende regelingen voor de huisvesting 1946-1952.
[17] Fédéchar, Main d’oeuvre italienne. Relève des causes de départs ventilées par profession d’origine, 1955, in RH, Fonds Fédéchar, 1450, cit.
Lacrime nere
L’emigrazione dalle Valli del Natisone nelle miniere belghe, nella testimonianza di Ferruccio Clavora
Nei progetti predisposti dall’Associazione Clape, un momento significativo è rappresentato dall’iniziativa che sarà realizzata per ricordare i 75 anni dal trattato italo-belga del 23 giugno 1946, con il quale l’Italia si impegnava a trasferire 50.000 lavoratori, 2.000 a settimana e, in cambio, il Belgio forniva 200 kg di carbone al giorno. Nell’occasione sarà stampato un volume aggiornato, curato da Ferruccio Clavora, con le immagini e le testimonianze raccolte nel libro Lacrime nere. Dalle Valli del Natisone alle miniere del Belgio di Ferruccio Clavora e Romeo Pignat.
L’emigrazione dalle Valli del Natisone verso le miniere del Belgio è un doloroso viaggio verso la notte e, insieme, verso la luce della coscienza. È la notte dell’identità della Slavia, svuotata nel secondo dopoguerra da troppe partenze, dispersa lungo la strada di un progressivo declino della propria lingua e della propria cultura, di tradizioni coltivate per secoli in questa complessa terra di frontiera. È la notte della dignità dell’uomo, venduto e comprato sulla carta di un trattato, condannato a un lavoro inumano nelle viscere della terra, emarginato in baracche.