I venditori ambulanti carnici, attraversando i monti, hanno contrastato la povertà dei loro paesi e hanno sostenuto la famiglia, costruito la casa, trovato il benessere. A volte anche la morte.
di LUCIO GREGORETTI
Riempivano le scatole ovali, i cassettini e gli scomparti dei bauli con i quills di cannella, con nose macis e noci moscate, con chiodi di garofano interi e pestati, con coriandolo, pepe e zenzero. Nella lunga filiera degli scambi partiti dall’Asia meridionale e sud-orientale, passando per Alessandria, per Tripoli, per Aleppo, alla fine i carnici caricavano le spezie sbarcate a Venezia sulle loro spalle e valicando le Alpi alimentavano il grande mercato austriaco e tedesco.
Presero il nome di cràmars, cramârs, cromers, dal tedesco kram, merce. Li spingeva la fame e la povertà, cercavano rimedio alle scarse risorse del suolo di Carnia, con intraprendenza e sacrificio, e hanno scritto una pagina straordinaria della storia del popolo carnico.
Scriveva Girolamo di Porcia nel 1560: „i carnici, disponendo di poca terra coltivabile, debbono andar per il mondo” e Fabio Quintiliano Ermacora, nello stesso periodo nelle Antichità della Carnia aggiungeva: „emigrano l’inverno, ed ogni estate si rendono a casa per le messi; e, dopo sistemati gli affari domestici, si affrettano a tornare alle primitive occupazioni, procacciandosi in tal guisa non poca somma di numerario”.

CRAMARS. Le scatole per contenere le spezie.
La Serenissima, insidiata dalle Compagnie portoghesi e, più tardi, olandesi, era il principale centro di immagazzinamento di quelle spezie così importanti per l’alimentazione, soprattutto là dove era necessario conservare per lungo periodo grandi quantità di derrate – come laddove insistevano le piazzeforti militari – ma anche fondamentali nei medicamenti, per i loro effetti farmacologici e soprattutto per le virtù quasi magiche che ad esse si attribuivano.
Caricando le merci sulle spalle nelle crame o crassigne, i mobiletti in legno dotati di cassetti, i cramars sono stati un fenomeno emigratorio del tutto particolare lungo le contrade del centro Europa, quelle della Germania, dell’Austria, della Moravia, della Boemia, della Slesia, della Slovacchia. Non solo spezie, ma anche stoffe e oggetti di artigianato, „alcune poche speciarìe et merci”, „delle specierìe, de fustagni, delle telle et simili merci”, „specie et altre robbe, ciò è fustagni et ogne sorte di mercantie di telle”, „delle speciaríe et dei pani di seta”.

CRAMARS. La “crasigne”, il mobiletto in legno dotato di cassetti, usato dai cramars per trasportare le merci.
In uno studio condotto da Elio Varutti, si sostiene che i venditori ambulanti friulani, soprattutto gli speziali e gli „aromatari”, erano alchimisti in senso stretto, poiché si dedicavano alla produzione di medicamenti e di oggetti per la cura del corpo, come pomate, cerotti, creme, ciprie, polveri. Bisogna essere un po’ alchimisti nei traffici commerciali, senza pretendere di trasformare un metallo grezzo in oro. A parte che alcuni mercanti medievali si occupavano degli aromi, erano quindi considerati come aromatari e profumieri. Essi si intendevano di alcuni aspetti della moderna chimica, che fino al Rinascimento era conosciuta come alchimia.
Varutti ricorda che alla fine del Settecento operava a Trieste un cramâr curatore originario della Carnia; si trattava di un vero alchimista come si deduce da alcune lettere di ringraziamento del periodo compreso tra il 1796 e il 1819, tutte datate a Trieste; affidavit come da manoscritti originali nella collezione famiglia Conighi di Ferrara. Varie persone ringraziavano il tale Antonio Candido, per averle guarite da certi acciacchi col „Cerotto Angelico Meraviglioso”. Già il nome del medicamento è tutto un programma. Si è trovata pure la ricetta del mirabolante rimedio, che era a base di cera d’api, zafferano e biacca.
Candido è un tipico cognome di Rigolato, precisamente della frazione di Ludaria, da dove i cramârs del posto si recavano a Salisburgo, nel 1787, per la fiera del Carnevale, a vendere vestiario, come si legge nelle carte notarili. Per non dire di Praga, dove c’è la strada degli alchimisti e, nei secoli scorsi, diversi cramari friulani si trovarono in Boemia, come ha dimostrato in un suo studio, in lingua ceca, Giorgio Cadorini, professore alla Università della Slesia di Opava. A Buda, la parte antica di Budapest, in Ungheria, c’è il Museo della Farmacia dell’Aquila d’Oro, dotato di un laboratorio dell’alchimista. Chissà se i friulani emigrati in Ungheria passarono anche da quelle parti. Probabilmente sì, visto che ad esempio nel 1772 erano a Sarvar, in Ungheria, Leonardo Moro, figlio di Domenico, di Paluzza e sua moglie Maria Anna Vanini, figlia di Pietro, di Naunina di Paluzza, la cui casata fu prima cramârs e poi imprenditrice.

CRAMARS. “Scjatulis pes droghis”, scatole per le droghe.
A parte l’alchimia, le testimonianze che derivano dai verbali dei processi subiti nell’estate 1608 da 76 cramari dell’alta valle del But, per aver contravvenuto al precetto dell’astinenza dai cibi proibiti durante la Quaresima, l’Avvento e le Vigilie della stagione precedente, mentre si trovavano in emigrazione (raccolte da Giorgio Ferigo, in „Nach Carinthia. Itinerari di cramârs”), fanno emergere i caratteri di questa esperienza.
All’estero i cramârs furono a contatto con la nascente Riforma protestante luterana, che a partire dal 1520, si diffuse nelle regioni tedesche, sostituendosi lentamente alla confessione cattolica. Al loro periodico ritorno in Carnia, portarono queste nuove idee religiose, le quali, dopo una prima limitata tolleranza, furono implacabilmente contrastate dall‘Inquisizione locale, con denunce e processi, che solitamente si conclusero con abiure, pubbliche penitenze e multe, cosicché la Riforma in Carnia fu poi definitivamente soffocata.
La ricerca di Ferigo fa luce su molti altri aspetti. Era un’emigrazione prevalentemente stagionale: „Io sono stato con il mio
Padrone, che ha nome Zuald et è figliolo di Giovan Coz, doppo San Michielle, in Germania, a portarvi delle speciarie et dei pani di seta”, testimoniò Leonardo Facini di Avosacco all’inquisitore del Sant’Offizio. Un’emigrazione faticosa sulle poche rotabili come la strada di Monte Croce o del Plöckenpass „qui mons est in ascensu milia 5 et in descensu totidem difficillimus, acclivis et petrosus, ac quodammodo hominibus et equis invius”, lungo la quale si accompagnavano ai mercanti di vino nelle botticelle a dorso di mulo verso le pianure danubiane.

PASSAGGI. Montpellier, Francia. Foto di Ana Frantz. Unsplash.
Oppure la strada della Pontebbana, piana ma preda delle furie del Fella, lungo la quale incrociavano i carri di „chiodi, lame, bastoni, fil deffero, azzalli e ferrarezza d’ogni sorte, como anco delli piombi e delli rami” dalla Stiria e dalla Carinzia al porto di Venezia, sugli impervi sentieri che menavano ai passi, percorrendo i quali si potevano aggirare le multe, le dogane (da Incarojo per passo Lodin, Meledis, Cordin; per forcella Lanza, Pizzul, Pradulina, Forchiutta; da Givigliana „per val di Croce, la Furchita, la Gran Forca, e quindi per il sentiero di sinistra, alla Fontana dei Kromers, che da loro prese il nome, e di lì a Monte Croce”).
Lungo queste vie al principio d’autunno centinaia e centinaia di uomini delle valli si avviavano alla stagione „in foresto” nelle città straniere. Secoli di cammino: la partenza col peso della crassigne piena di merci e il ritorno col gruzzolo dei guadagni. Dal Medioevo al Seicento i cramars si spostavano a piedi indossando calzature adatte anche alle traversate sulla neve: strade strette e mal tenute, impervi passi di alta montagna ove i carri non potevano transitare ed era necessario procedere in fila sui passi ghiacciati. A partire dal Cinquecento poterono utilizzare trasporti occasionali di barche e zattere lungo i fiumi navigabili come la Drava, la Salzach, l’Enns, la Mur.

PASSAGGI. Montpellier, Francia. Foto di Ana Frantz. Unsplash.
All’inizio del Settecento, con la sistemazione dei valichi e l’allargamento delle strade, anche i cramars iniziarono a fare uso dei cavalli da tiro. Lungo i percorsi più frequentati sorsero istituti monastici, ospedali, ricoveri a favore dei passanti e dei commercianti, che impiegavano anche 15 giorni per raggiungere a piedi Salisburgo partendo dai paesi carnici. Era un’emigrazione prevalentemente „temporanea” – in dipendenza dalla lontananza delle mete e dalla struttura del negozio, dagli accidenti e dalla fortuna – che tuttavia poteva allungarsi e in alcuni casi diventare definitiva.
Dichiarò un famèi, Giovanni Di Ronc di Treppo, di aver trafficato „con la crema per la Carintia ⁄ in un mercato di là di San Vito su la Carintia ⁄ et stava con un patrone il quale ha per nome Floriano Mosinano, che è mercante di quel luoco, et sta nel mezzo della piazza per dritto alla fontana, et tiene botteghe de pani di telle, et di simili cose”.
Floriano Mussinano possedeva un negozio stabile, in un piccolo villaggio poco lungi da Maria Saal, a Possau, „in terra todescha”; assoldava dei portatori che lo rifornivano di parte della merce; il suo negozio era recapito e punto di rifornimento per i paesani. Tra gli emigranti vi erano, dunque, dei „patroni”, imprenditori che rischiavano un capitale, disponevano di solito di negozi stabili all’estero ed avevano alle loro dipendenze dei „famigli” o portatori; vi erano dei servitori (i famèis) che per un salario di solito contenuto, ma non miserrimo, portavano la crama e bussavano alle porte, imparavano il tedesco e i trucchi del mercanteggiare; e vi erano dei merciai „autonomi”, di solito più modesti, che solitari e a piedi, si ritagliavano una piccola fetta di contrada e di mercato.

PASSAGGI. Montpellier, Francia. Foto di Ana Frantz. Unsplash.
L’esperienza dei cramars finì con le guerre napoleoniche e col nuovo assetto „nazionale” degli Stati. Scomparvero per primi, e con crollo repentino, i mestieri legati al commercio delle spezie e, soprattutto, dei medicinali, poi fu la volta dei numerosi tessitori che non potevano reggere la concorrenza dei telai meccanici, poiché „ai rozzi forti e costosi loro tessuti” erano preferiti dalle famiglie i candidi, ma pur esili filati di cotone a tre braccia al franco, le splendide stoffe di poca durata.
I montanari tentarono di reagire con un’espansione dell’attività agricola, provarono a falciare i fieni fin sui cretti, a mantenere due mucche là dove se ne poteva pascere una soltanto. E tuttavia, le necessità strutturali che avevano determinato l’emigrazione dei cramars non erano mutate. Nell’Ottocento e nel Novecento nuove vie si apriranno quindi per l’emigrazione friulana.

PASSAGGI. Le immagini di queste pagine sono di Ana Frantz.
PER SAPERNE DI PIÙ
Giorgio FERIGO, Alessio FORNASIN, Le stagioni dei migranti. La demografia delle valli carniche nei secoli XVII-XVIII, in „Cramars. Emigrazione, mobilità, mestieri ambulanti dalla Carnia in età moderna”, a cura di Giorgio Ferigo, Alessio Fornasin, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1997, pp. 99-131. 52.
Da estate a estate. Gli immigrati nei villaggi degli emigranti, in „Cramars. Emigrazione, mobilità, mestieri ambulanti dalla Carnia in età moderna”, a cura di Giorgio Ferigo, Alessio Fornasin, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1997, pp. 133-152. 53.
Giorgio FERIGO, Alessio FORNASIN, Claudio LORENZINI, Nota bibliografica su cramârs e tessêrs carnici all’estero, in „Cramars. Emigrazione, mobilità, mestieri ambulanti dalla Carnia in età moderna”, a cura di Giorgio Ferigo, Alessio Fornasin, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1997, pp. 488-493.
Elio Varutti e Giancarlo L. Martina, Cramari e tessitori della Val Tagliamento. Echi e riflessioni dopo il convegno di Tolmezzo sui „Cramars” (8, 9 e 10 novembre 1996), „Quaderni dell’Associazione della Carnia Amici dei Musei e dell’Arte”, 1996, n. 3, pp.
65- 88.
Cramars, ma non solo
Tanti furono gli antichi mestieri, ormai scomparsi, che i nostri corregionali praticarono con successo da emigranti all’estero. Fra questi:
I FORALÀRIS
Si dice che Treppo sia la patria dei foralàris, di coloro che a partire dall’Ottocento, si dedicarono attivamente all’attività di trementina con un’opera intensissima, fino allo scoppio della prima Guerra Mondiale. Esercitarono il mestiere nei luoghi, soprattutto in Carinzia e in Stiria, dove abbondavano i boschi di larice. Si dovevano forare i fusti dei larici pronti per essere tagliati dai boscaioli e raccoglierne la resina in grandi mastelli, che portavano a valle sulle spalle. La sostanza raccolta veniva filtrata e la trementina ottenuta veniva spedita in fusti ai grossisti per la successiva diffusione.
I GUES E I GUZZADORS
Il mestiere dell’arrotino (guizzadors o gues) risale ai tempi in cui furono inventati i ferri taglienti, perché ovviamente, ottenuta l’arma o l’attrezzo, occorreva rimettere in sesto il filo rovinato o consumato. Non si sa con esattezza da quanto tempo gli abitanti di tre comuni dell’alta Carnia (Ligosullo, Paularo e Treppo Carnico) abbiano cominciato a dedicarsi a questo mestiere, che ha condizionato positivamente la civiltà delle sue genti e che oggi è soltanto un ricordo. Forse è derivato dal commercio ambulante che era svolto oltre confine da venditori di spezie e di tessuti, i cosiddetti cramârs.
Con il sorgere delle ferrovie e sotto la spinta del sempre crescente numero di addetti, il mestiere del gue arrivò alle regioni interne dell’Austria, oltre che in Baviera, in Ungheria ed in Serbia. L’emigrazione stagionale si svolgeva in due tempi: da fine gennaio ai primi di giugno, con rientro nello stesso mese per la fienagione, nuova partenza a ferragosto con rientro ai primi giorni di dicembre.

ARROTINO. Il Museo dell’Arrotino, nato nel 1999 a Stolvizza di Resia, è dedicato alla professione artigiana che consiste nell’affilatura o molatura delle lame. Gli arrotini della Val Resia cercarono lavoro in tutta Europa.
I linaroli dei tempi di Jacopo Linussio e di Cristoforo Moro
I linarioli carnici i andavano a far incetta di lino in Carinzia, onde rifornire le piccole imprese in patria; e, a partire dal primo Settecento, per rifornire la grande industria tolmezzina che ebbe protagonisti importanti di un’attività imprenditoriale di successo.
Fra i tanti che lasciavano la propria patria per andare in terre straniere ad apprendere un mestiere e poi ritornare, un posto di rilievo ha Jacopo Linussio. Nato a Villa di Mezzo, un borgo di Paularo, l’8 aprile 1691, appena raggiunta l’età per essere assunto come garzone, si reca per un periodo di apprendistato a Villach (Villaco), uno dei centri di lunga tradizione tessile della Carinzia.
Rientrato a Tolmezzo, lavora come garzone nell’azienda Zanin-Pradotti e successivamente nel 1717 crea un opificio a Moggio Udinese. Tra il 1738 e il 1741 apre una fabbrica a Tolmezzo e successivamente a San Vito al Tagliamento (la Ca’ Bianca).
Linussio è considerato il primo imprenditore della Carnia che, grazie al suo talento e alle sue doti, riesce a legare la grande industria all’artigianato domestico. Alle sue dipendenze arrivarono a lavorare fino a 30 mila persone e 1.200 erano i telai, sparsi nei vari centri abitativi della regione, che lavoravano per lui.
In una piccola raccolta di 32 lettere inviate, tra l’ottobre 1759 e il febbraio 1768, da Andrea Linussio ad un ignoto corrispondente a Moggio, di proprietà di Stefano Fabiani di Paularo, compare – senza gran risalto – colui che doveva diventare uno dei suoi più temibili concorrenti al di là delle Alpi, fondatore della Gebruder Moro di Klagenfurt: quel Cristoforo Moro da Ligosullo, esempio di una stagione imprenditoriale cominciata vendendo mezzelanette e spezie.
La fabbrica di filati e di seta di Giovanni Battista Moro era certamente attiva a Klagenfurt nel 1772; nel 1784 i due fratelli Cristoforo e Giovanni Moro avevano trasferito la manifattura tessile a Wilspelhof am Fenerbad, cui avevano affiancato un negozio al numero 9 della Neuer Platz del capoluogo; nel 1786 avevano acquistato all’asta la parte disponibile del chiostro cistercense di Viktring, interamente affittato nel 1796 per la considerevole somma di 12.363 fiorini.

LINUSSIO. Le lavoranti dell’industria tessile, particolare del ritratto allegorico di Jacopo Linussio, olio su tela, anonimo del XVIII secolo (Tolmezzo, Museo delle arti e tradizioni popolari).