Dalle vallate del pordenonese e del bellunese, il disagio e la fatica delle coraggiose venditrici ambulanti.
di LUCIO GREGORETTI
“Le ghiaie bevono il sereno dell’acqua nel Tagliamento, e nelle pietre stanche del castello dorme un altro tempo. Gente della Grava, inginocchiata in Duomo, dove gli archi sono ali grandi d’angelo e i santi fioriti in coro intorno all’altare, vegliano in una luce verde d’acqua”: i versi struggenti di Novella Cantarutti riecheggiano tempi e luoghi della fatica e della nostalgia. Le montagne e le vallate del pordenonese occidentale, la Valcellina, Val Tramontina, Val Colvera, fanno da cornice alla rappresentazione lirica di Novella Cantarutti di costumi in via di estinzione di una comunità che nella sua storia ha conosciuto le vicende del lavoro più disagevole e pesante.

Un terra che, con quella vicina del bellunese, ha alimentato per secoli le forme dure e sofferte dell’esperienza migratoria. Da Claut e da Cimolais, da Casso, da altri centri della Valcellina, dalle Valli del Vajont, a piedi si spostavano le coraggiose, Nèrte, caricandosi sulle spalle la pesante dhèrla, colma di oggetti di legno che gli uomini non emigrati, assieme ai vecchi, ai ragazzi più grandi e talvolta alle donne stesse, realizzavano durante il lungo inverno. Nel territorio di Erto e Casso e nella Valcellina, sono le donne, le Nèrte, a svolgere l’attività di venditrici itineranti degli utensili di legno da uso domestico prodotti artigianalmente all’interno delle stalle contadine male illuminate con accetti, coltelli a petto, pialle, scalpelli, trivelle, roncole e il tornio, del tipo a balestra o a pedale.
Fanno il paio con le Cròmera, ambulanti come i cramars, con la cassèla, una sorta di cassettiera portatile in cui era riposta con cura la varia mercanzia, articoli di merceria quali spagnolette di filo, bottoni vari, elastici, fettucce, cordoni da scarpe, cinture, tiràche (bretelle), gusèle (aghi per cucire), spille da balia, „uova” di legno da rammendo, ditali, articoli di biancheria come mutande, fanèle (maglie da sotto), calzini, fazzoletti da naso e da testa, traverse, materiale per l’igiene e la cura della persona come pennelli da barba, lamette, pettini, brillantina, saponette, specchietti, oggetti di bigiotteria, tabacchiere, piccole roncole a serramanico, forbici.

NERTE E CROMERE. Nel territorio di Erto e Casso e nella Valcellina, sono le donne, le Nèrte, a svolgere l’attività di venditrici itineranti degli utensili di legno da uso domestico prodotti artigianalmente all’interno delle stalle contadine male illuminate con accetti, coltelli a petto, pialle, scalpelli, trivelle, roncole e il tornio, del tipo a balestra o a pedale. Fanno il paio con le Cròmera, ambulanti come i cramars, con la cassèla, una sorta di cassettiera portatile in cui era riposta con cura la varia mercanzia.
Di Lois Bernard, ricercatore e divulgatore, autore tra l’altro del bel libro „Cose di vecchie case”, il Centro Studi Aletheia promosso dall’Associazione Bellunesi nel Mondo ha messo in rete, nel proprio sito, uno studio su Cròmere e Nèrte che esplora a tutto tondo queste singolari forme di emigrazione femminile delle vallate pordenonesi e bellunesi che potrebbe essere definita come „fuoriporta”. Non un’emigrazione „minore”, in ogni caso perché, come scrive Bernard, „ogni forma si porta appresso il proprio stigma, le proprie spine, ed è dettata da una comune motivazione di fondo che ha le sue radici in una condizione socioeconomica inadeguata. L’emigrare è un’opzione, sia che nasca da una necessità, com’è per lo più avvenuto, sia che punti a un traguardo di auto-affermazione. Un fenomeno endemico delle valli alpine, dove il terreno coltivabile era insufficiente in termini di estensione, fertilità e condizioni climatiche, ad assicurare il necessario per vivere e quindi, quando anche la pastorizia transumante andò in crisi in seguito ai crescenti divieti a far svernare le greggi in pianura, bisognò escogitare qualcosa di nuovo, di alternativo.”
Luoghi che fanno ispirare a Novella Cantarutti versi struggenti come questi: „Strada percorsa, lungo la via le lavine, da un passo d’ava qui venuta sposa da un borgo ascoso esposto sopra i fiumi. Voglio il suo riso e una veste da sposa! Tra il verde avaro e la Meduna”.

MARIÉTA PASÀNEGA. La chiamavano Mariéta Pasànega, al secolo Maria Da Rold. Mariéta era il diminutivo dialettale di Maria, Pasànega il soprannome che, un tempo, veniva spesso sostituito al cognome anagrafico per distinguere una famiglia da un’altra, data la frequente omonimia che caratterizzava gli abitanti dei piccoli borghi di montagna e non solo. Questi soprannomi potevano derivare dal nome proprio del fondatore della famiglia, dal mestiere esercitato, da una caratteristica fisica o di costume, dal toponimo del luogo di provenienza e così via.

La fotografia come fonte di Storia e di storie
Le straordinarie fotografie che accompagnano la ricerca di Lois Bernard, pubblicata dal Centro Ricerche dell’Associazione Bellunesi nel Mondo, documentano nel modo più suggestivo l’esperienza delle Nérte e della Cromere, le venditrici ambulanti delle valli del pordenonese e del bellunese. Dimostrazione di quanto la fotografia storica può essere efficace fonte di Storia e di storie.