L’emigrazione costituisce per la Slavia una delle pagine più laceranti della sua storia. Anche il pendolarismo ha favorito l’abbandono della terra di origine e lo svuotamento della Valle.
di FERRUCCIO CLAVORA
L’emigrazione è una delle pagine più dolorose della storia della Slavia e su di essa merita soffermarsi. Nell’ambito della grande ondata migratoria che ha colpito il Friuli tra la seconda metà del 19° secolo e la prima Guerra Mondiale, la natura dell’ambiente e la collocazione geografica hanno favorito anche lo spostamento di uomini e di merci dalla Slavia verso l’esterno.
La conoscenza della lingua slava apriva alla nostra gente le porte ed i mercati dell’est europeo: Croazia, Romania, Austria, Germania, Boemia, Russia. Lo sviluppo economico dell’Europa centrale richiedeva manodopera per la costruzione di ferrovie, di grandi opere pubbliche o nelle fornaci. Operai e manovali della Slavia prestarono le loro braccia a questo scopo, coinvolti addirittura ella costruzione della Transiberiana. Si sviluppò anche un particolare tipo di migrazione stagionale chiamata „guziranje”. In effetti, molte famiglie integravano il bilancio domestico con il commercio ambulante di questi girovaghi che trasportavano, in casse di legno fornite di cinghie chiamate „krošnje”, merci di ogni tipo: panni, maglierie, tele, immagini sacre, ecc. che vendevano nei piccoli paesi isolati.

SAN QUIRINO. San Pietro al Natisone, una veduta della Chiesa di San Quirino. Immagine di Johnn Jaritz, opera propria, commons.wikimedia.org
Vi è quindi un’emigrazione, seppure temporanea e non di massa. Tuttavia, il fenomeno è di gran lunga meno importante che nel resto del Friuli. In alcune zone, il numero di persone che ogni anno partiva era superiore al 10% della popolazione (nel distretto di Gemona arriva, nel quinquennio 1895-99, all’impressionante percentuale del 16,21%: nello stesso periodo nella Slavia questa percentuale non raggiungeva nemmeno il 2%). Dal momento che il territorio non era né più fertile né meno impervio di altri, gli studiosi si interrogarono sul perché di questa anomalia propria della Slavia. Cercarono di capire come mai i suoi operai e i suoi commercianti ambulanti ritornavano quasi sempre al paese natio e raramente si stabilivano nei Paesi nei quali si recavano a commerciare o a lavorare stagionalmente.
La spiegazione va ricercata nella fortissima identità etnica e linguistica che caratterizzava gli slavi delle convalli di Antro e di Merso. Accanto a questa identità era ancora vivo il ricordo dell’autogoverno e del conseguente attaccamento alla terra, a quella patria che si chiamava „Schiavonia Veneta sopra Cividale”. La proprietà della terra coltivata e quindi l’assenza di latifondi e di mezzadri o fittavoli, rafforzava ancora di più il radicamento e l’identificazione con la „propria” terra.
„È rarissimo che uno si pieghi a farsi dipendente od affittuale dell’altro, ma tutti si accontentano di essere piccoli possessori e poveri. Se servi vi chiameranno più umanamente famigli e non si distingueranno dai padroni. I rari giornali sono pagati il doppio che al piano, pattuiscono quattro pasti al giorno e dettano legge sulle stagioni del lavoro… La domenica, dopo una settimana così laboriosa, il pater familias non cercherà compagni di svago, ma passeggerà solo, ore ed ore, i confini della terra sua”. (C. Podrecca, La Slavia italiana, 1884, pag. 75).

SAN QUIRINO. Particolare dell’iscrizione gotica della facciata della Chiesa di San Quirino a San Pietro al Natisone (UD). Immagine di Johnn Jaritz, opera propria, commons.wikimedia.org
Negli anni ’20 del ‘900 assume una certa consistenza anche il movimento delle „dikle” e cioè delle giovani donne della Slavia che, come conseguenza dell’alta densità della locale popolazione e della relativa scarsità delle risorse agricole prodotte dal territorio, che non garantivano la sussistenza delle famiglie, si trovavano nella necessità di non pesare sull’esiguo bilancio famigliare. Prestare servizio presso famiglie agiate costituiva, in quel periodo, l’unica possibile occupazione.
La domanda proveniva soprattutto dai grossi centri urbani come Milano, Torino, Roma, Napoli e Salerno, dove risiedevano molte famiglie di origine aristocratico-borghesi. Il lavoro di queste „dikle”, e cioè di queste domestiche, consisteva nell’essere contemporaneamente lavandaia, cameriera, babysitter, ecc. e cioè „tuttofare”. Negli anni ’50 invece, le donne della Slavia trovarono impiego nelle fabbriche di orologi in Svizzera, delle macchine fotografiche in Germania, nella lavorazione di cristallo del Belgio, ecc. prima di un rientro nelle Valli quale risposta ad una condizione di vita degradante.

SAN PIETRO AL NATISONE. Fontana presso il Cimitero. Di Cascafico, opera propria, CC BY-SA 4.0, commons.wikimedia.org.
Ma, dopo quella verso le miniere del Belgio, la vera grande fuga dalla Slavia, sia verso i centri industriali italiani che verso l’estero, avrà luogo nel secondo dopoguerra, negli anni ’50 e ’60. La trasformazione del confine della Slavia in cortina di ferro, e il conseguente conflitto ideologico e geostrategico, travolsero la Slavia e fecero vacillare la sua identità che era stata, nel secolo passato, la vera barriera contro l’emigrazione.
Va naturalmente tenuto nel debito conto il mutamento economico e culturale che stava riducendo le società agricole e chiuse all’agonia. La coltivazione di piccoli appezzamenti di terra non poteva più, né nella Slavia né altrove, sostenere una famiglia. L’economia di sussistenza e autoconsumo era stata sconfitta dalla divisione del lavoro e dalla società dei consumi, alimentata da mercati ormai mondiali. Partire era diventata dunque l’unica scelta.

SAN MICHELE. Monteaperta, frazione di Taipana, Chiesa di San Michele. Immagine di Jean-Marc Pascolo, opera propria, commons.wikimedia.org
Un altro documento rende ancora più evidente la volontà politica di non consentire alla comunità della Slavia di difendere la propria esistenza. Si tratta di un atto del 1966, quando cioè era ancora possibile avviare processi socioeconomici in grado di garantirne la sopravvivenza. Comportamento che ricorda la storia del trenino dei primi anni del ‘900: una costante della storia della Slavia!
L’attenzione per le zone particolarmente depresse del Nord matura con la presa d’atto della crisi delle zone di montagna e dell’arco alpino. Questa presa di coscienza determina l’adozione di una legge che definisce l’ambito territoriale di queste zone „particolarmente depresse”. Su proposta del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno e delle zone depresse del Centro Nord, il Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (C.I.P.E.) definisce, nell’ambito della legge 614 del 22 luglio 1966, una nomenclatura di 65 zone che, senza un intervento diretto dello Stato, non presentavano valide prospettive di sviluppo e le cui popolazioni avrebbero mantenuto bassi standard di vita sia individuali (reddito pro capite) che collettivi (infrastrutture civile e servizi sociali).

ANDAMENTO LENTO. Nella chiesa di San Bartolomeo Apostolo i costoloni del soffitto gotico con statue di santi e angeli. Andamento Lento: storie di persone, paesi e paesaggi del Friuli.
In questo elenco sono comprese anche due aree della provincia di Udine: la zona del basso Tagliamento con 14 comuni e quella dell’arco pedemontano e dell’udinese con 34 comuni. Anche i comuni delle Valli? NO! In questo atto si trova la definitiva conferma che lo sviluppo è destinato a realizzarsi altrove: a Cividale, Buttrio, Manzano, Corno di Rosazzo, San Giovanni al Natisone, Remanzacco, Moimacco, Premariacco, ecc… Cade anche l’ultima illusione, propagandata dagli amministratori locali, come motore dello sviluppo: quella delle tante strade. Diventa chiara la loro funzione: assicurare il flusso dei pendolari dalle Valli sottosviluppate e condannate a rimanere tali, verso i poli dello sviluppo della pianura.
L’efficacia di questa politica è chiaramente dimostrata dall’entità del flusso dei pendolari: in pochi anni, oltre il 40% degli attivi delle Valli – circa 1.600 lavoratori e lavoratrici – percorrono una distanza superiore ai 40 km per raggiungere il loro posto di lavoro. Questo pendolarismo si trasformerà molto rapidamente in abbandono definitivo della terra di origine e contribuirà ad ulteriormente a svuotare le Valli.

ANDAMENTO LENTO. Affascinante e un po’ misterioso mascherone a Bordon. Andamento Lento: storie di persone, paesi e paesaggi del Friuli.
Un pugno di terra del Caucaso
Mateus fa il venditore ambulante (guzirovec) e con il suo passaporto dell’Austria-Ungheria gira e lavora attraverso tutta l’Europa. Vende immagini religiose, specchi, pettini, fiammiferi e altre chincaglierie soprattutto in Slovenia, ma anche in Stiria, in Moravia, in Polonia. A Varsavia impara il russo e a questo punto gli si apre davanti tutta la Russia. La gira in lungo e in largo finché nel 1875 capita, con altri due amici delle Valli, nel Caucaso, che gli piace molto perché gli ricorda la sua patria. I tre acquistano 85 ettari di terra vicino a Vladikavkaz e iniziano la costruzione di una fattoria.
Nel 1876 Mateus torna a Drenchia per sposarsi con la fidanzata Maria Jurman e porta con sé nel Caucaso le promesse spose degli altri due amici e altri parenti disposti a trasferirsi. Così viene fondato un nuovo paese, che prende il nome di Italijanski Hutor. Riccardo Ruttar, ricercatore, autore di pubblicazioni fra le quali, con Ferruccio Clavora, “La comunità senza nome”, ha ricostruito la storia del nonno Mateus Ruttar, nato nel 1847 a Clabuzzaro/Brieg, una delle tante frazioni di Drenchia.
Mateus da vero patriarca ha 23 figli, 11 da Maria e, dopo la morte di questa, dalla seconda moglie Marianna Crisetig, di Lesizza. Uno degli ultimi è Edoardo, il padre di Riccardo, nato a Vladikavkaz nel 1908. Tra il 1900 e il 1915 la piccola comunità slovena è all’apice della sua prosperità, Mateus può definirsi con soddisfazione “benestante”. In seguito alla Rivoluzione russa perdono però la terra e, dopo la morte di Mateus, quasi tutti i fratelli e le sorelle Ruttar decidono di tornare in Italia, nonostante nessuno di loro avesse una conoscenza diretta del mondo da cui tanti anni prima erano partiti i genitori.
Molti avevano un lavoro, erano sposati e con figli. E portano con sé, dal Caucaso, una manciata di terra, chiusa in un fazzoletto, terra da far spargere sulla propria tomba, secondo l’usanza russa. Grazie alla visita di due viaggiatori sloveni, nel 1899 e nel 1912, che hanno lasciato lunghe e approfondite relazioni, Riccardo ha ricostruito le vicende del nonno e le ha messe a disposizione sul web corredate da straordinarie fotografie (www.finestrasulmondoslavo.it).

RICERCATORE. Riccardo Ruttar ha ricostruito la storia del nonno Matteus.