Ricorrono i cento dieci anni dalla nascita, ad Arta nel 1912, di Gina Marpillero. Questo testo tratto da „Essere di paese”, volume di esordio del 1980, ricostruisce con profondità di sentimenti l’esperienza di „uomini e mestieri” in giro per il mondo, riflessi nelle persone care rimaste sole a casa. Vuole essere l’omaggio, in questa ricorrenza, a questa importante personalità della cultura regionale.
di GINA MARPILLERO
Che gli uomini del paese partissero ogni primavera mi sembrava una cosa naturale. Che andassero a lavorare a Parigi, a Bruxelles, a Marcinelle o a Zurigo mi sembrava una cosa normale. Non ho mai pensato che avrebbero potuto portarsi dietro anche le mogli. Vedevo queste partenze come un andamento stagionale giusto. Il mio era un paese povero e, non avendo mai abitato in uno ricco, pensavo che per gli uomini partire a Pasqua e tornare a Natale fosse un destino e basta.
Gli uomini nella primavera sospendevano i lavori nelle proprie case. Rimaneva a metà una parete da “stabilire” (tirare a malta fina), rimanevano muri di nudi sassi grigi a malta grezza. Al loro rientro i lavori riprendevano di colpo come fossero passati solamente dei giorni e non un anno intero, e alle volte anche di più.
Gli attrezzi: il badile, la carriola, il martello, la cazzuola, sistemati con grande cura nel sottoscala, riprendevano vita. Le case in Carnia le ho sempre viste fatte a rate. Le ho sempre viste con quelle finestre vuote nei piani superiori, come occhi che guardano lontano, in attesa che il padrone ritorni per sistemarle.

Quei buchi sempre provvisoriamente chiusi con delle tavole (squarz) inchiodate dal di dentro e appoggiate sullo stipite sottostante, facendo uscire dalla finestra come una frangia sgangherata di tavole irregolari sporche di malta. I cortili delle nostre case li ho sempre visti con dei grandi mucchi di sassi, di ghiaia e di sabbia. Erano i punti di incontro di noi bambini. Erano le nostre spiagge.
„Come mai Maria di Narde ha una casa così grande e lei è sempre sola?” domandavo a mia madre. „È sola proprio perché la casa è grande. Tutti i suoi uomini, marito e i due figli sono all’estero: ci vogliono soldi per fare una casa”. Ma Maria la casa l’ha fatta quasi da sola! Il materiale l’ha portato vicino tutto lei. Andava al greto del fiume, che era ancora notte, a prendere sabbia per le malte fine, ghiaione e sassi; andava alla segheria per il legname, a Tolmezzo per la ferramenta e sempre tutto con la gerla.
Quando la gerla era carica, camminava con la testa bassa per vedere dove metteva i piedi e, quando, ritornando al fiume, la gerla era vuota, tirava fuori i ferri da calza e camminando lavorava. Erano sempre calzetti di lana bianca per i suoi uomini. Li faceva di lana perché assorbivano meglio il sudore.

Quando passavo davanti a quella casona doppia della Maria di Narde, quattro stanze a pianterreno, quattro al primo piano e quattro al secondo, che funzionavano da granaio, mi pareva di vedere questa donna che ininterrottamente scaricava la sua gerla di sabbia e di sassi e ripartiva verso il fiume nella poca luce dell’alba, ancora prima che suonasse l’Ave Maria, fino alla sera all’imbrunire.
Con questo essere tre mesi a casa e nove in Francia, o da altre parti, non poteva crearsi fra i coniugi un grande affiatamento affettuoso. Raccontava mia madre, a questo proposito, che proprio la Maria, che aveva dato anima e corpo per la costruzione di quella sua grande casa, era rimasta come svuotata da ogni sentimento, considerato superfluo. Lavoro, stanchezza e sfinimento mandano a farsi friggere anche l’amore. Si ha un bel dire, ma quando uno è stanco non ha voglia di stupidaggini.
Una sera, sotto le feste di Natale, la Maria sente battere alla porta della cucina (in generale non si chiudevano mai le porte): „Chi è?”. „Sono io, Pieri” dice il marito, che tornava dalla Francia dopo un anno di assenza. Maria, sempre dalla sua camera, senza muoversi, risponde: „Vedi lì Pieri, sul spolert [cucina economica] c’è un piatto di minestra di fagioli che mi è rimasto a mezzogiorno, riscaldala; se il fuoco è morto, gli stecchi sono nella cassa dei legni, come sempre”. Pur con questa freddezza di rapporti fra coniugi, malignava mia madre, a Natale veniva sempre „imbastito” qualche bambino, che nasceva regolarmente nel settembre, ottobre dell’anno successivo.

Certi mariti facevano alle volte due stagioni legate insieme, cosicché trovavano i figli cresciuti, dai due passavano ai quattro o dai quattro ai sei anni, ed era una bella differenza. Albin di Zie, tornato appunto dopo un’assenza di due anni, trattenuto a Zurigo per un lavoro continuativo importante, trova suo figlio diventato grande: l’aveva lasciato che aveva due anni e il bambino non lo riconosce. In questi due anni di assenza del padre il piccolo aveva sempre dormito nel lettone con la madre. Un lettone con il materasso (paion) gonfio di foglie secche, le foglie delle pannocchie del granoturco.
Al rientro del padre, il figlio viene trasferito in una cameretta attigua. Al mattino dopo il bambino è tutto indaffarato a disfare il letto e a smuovere, dalla parte dove dormiva lui, il materasso, gettando disordinatamente, con disprezzo, su tutto il pavimento le foglie. „Che cosa diavolo stai facendo?” gli dice sua madre. „La notte scorsa è venuto quell’uomo a dormire nel mio posto, io non voglio che ritorni anche questa sera!”.

ESSERE DI PAESE. A Milano, con Alcide Paolini e Carlo Castellaneta, alla presentazione di Essere di paese.
Da piccola non ho mai sofferto per il fatto di non avere il padre, perché non vedevo mai „padri”. All’infuori del sindaco, del segretario, del medico, del maestro, che erano dei veri padri, tutti gli altri erano o nonni o uomini „dispossenti”. Il padre contava poco, per quello che è rimasto nel mio ricordare l’infanzia. Quando erano a casa parevano degli estranei, erano come provvisori e il più delle volte consumavano buona parte del loro tempo libero all’osteria.
Ho avuto addirittura pena per certe mie compagne che per tre mesi all’anno avevano il padre a casa. Erano impegnati, sì, nei lavori di rifinitura della casa, tirar su pareti, „stabilire” muri grezzi, dare il bianco, andare nel bosco a far legna, ma alla domenica bevevano. Vedevo le mogli costrette ad andare per le osterie; prima chiamarli da fuori con le buone, poi entrare e tirarli per la manica della giacchetta, pregarli e supplicarli, perché tornassero a casa, affinché la „scimmia tirata su” non diventasse più grave.
Andavano e tornavano magari per una vita intera tra Arta e Parigi, ma di Parigi ho sempre sentito parlare con entusiasmo e con una vera conoscenza solo de „la Gare du Nord”. Era evidentemente il punto fisso che li teneva legati. „Gare du Nord, Paris – Stazione per la Carnia, Arta”, da una stagione all’altra.
Così nacque Essere di paese
di Gina Marpillero
Ad un certo punto della mia vita sono rimasta da sola. I figli sposati andati altrove. Non avevo impegni. Fu un periodo anche bello perché con mia cugina Wanda e altre amiche facemmo vari viaggetti, di quelli, appunto, organizzati per vedove o comunque donne sole e ancora in grado di vedersi il Partenone a piedi sotto il sole greco.
Ma come potevo impiegare tutto questo tempo che mi precipitava addosso? Mi misi a scrivere come presa da una necessità. Desideravo scaricare le idee, i ricordi, le conclusioni, le considerazioni; alleggerire cioè la mente raccontando a qualcuno le mie modeste storie.
Un ricettario delle cose da niente, delle cose che possono capitare, delle cose sognate e non fatte, di come si crede sia il mondo quando si è piccoli e di come invece il mondo comincia pian piano a diventare piccolo intorno a noi. Così nacque Essere di paese, il mio primo libro, che ebbe un grande successo.

PREMIAZIONE È una foto storica del 1980. Gina Marpillero riceve il premio Risìt d’Aur, dei Nonino (3 milioni) dalle mani di Mario Soldati. ”Ero completamente in fibrillazione, ma non si nota”. Nel 1981, dopo Essere di paese, pubblicò alcune liriche in friulano su Sot la nape (Poesies ponetes), La Panarie e sul numero unico della Società Filologica Friulana Darte (Tornâ a Darte). Dopo la buona accoglienza da parte della critica e il notevole successo di pubblico, a Essere di paese fecero seguito Int e pinsîrs a slàs (poesie, 1984), Storie di cortile e di corriera (racconti, 1989).

CON MIA MADRE “Mia madre aveva una sorella, la zia Betta, e un fratello, lo zio Pietro. Era considerata una delle più belle ragazze della vallata. Ha conosciuto solo mio padre e si è sposata a 22 anni. A 42 era vedova con tre figli maschi e me di tre anni. È morta a 83 anni.