Nato nel 1922, Pier Paolo Pasolini è stato regista, poeta, scrittore e pensatore visionario. Nel centenario della nascita lo ricordiamo con due contributi di Giacomo Scotti.
di GIACOMO SCOTTI
L’Istria è una terra magica dove un uomo sensibilissimo di grande intelligenza, disperato e complicato come Pier Paolo Paolini, ritenne di aver fatto „esperienza di un’altra vita, di un’antica vita”. Lo scrisse al termine di un breve viaggio, che lo portò all’estremità meridionale della triangolare penisola, con una sosta a Pola ed a Fasana, gli unici nomi geografici, oltre a quello di Idria, che egli ripete in una nota della rubrica „Il caos”, da lui condotta in continuità, dall’agosto 1968 al gennaio 1970, sul settimanale Tempo.
Fra quegli scritti, raccolti successivamente in volume con una prefazione di Gian Carlo Ferretti – il quale li definisce „un discorso serrato, incalzante, lucidamente ossessivo e una scrittura tesa, penetrante… con brani, talora, di straordinaria potenza e pregnanza e originalità” – troviamo appunto quello che riguarda l’Istria: fu pubblicato nella rubrica del 1mo febbraio 1969.
Da un anno era uscito Teorema e due anni dopo sarebbe apparsa la raccolta poetica Trasumanar e Organizzar. Confidando ai lettori del settimanale le impressioni di quella sua puntata in Istria, Pasolini diede al suo scritto un titolo bellissimo e provocatorio a un tempo: „L’Italia non italiana”. Definizione di quel grappolo d’uva che è la nostra terra.
Nella Confederazione Elvetica, come è a tutti noto, i cantoni di lingua italiana sono indicati come „la Svizzera italiana”. Dicendo per l’Istria „Italia non italiana” Pasolini non fece allusioni politiche, ma penetrò in un’idea di mondo particolare, quello istriano appunto, che a pochi è dato di scoprire; definì poeticamente l’anima storica dell’Istria: notava una spaccatura pur nell’unitarietà e nella continuità non solo geografica; notava la diversità di una terra „non italiana” che pure può chiamarsi Italia, non in senso di appartenenza politico-territoriale ovviamente, ma per i tanti filoni comuni di tradizione, di lingue, di cultura e, ancora una volta, di storia. Istria magica, complicata, Istria delle diaspore e degli incontri, delle scomposizioni e delle ricomposizioni, Istria diversa e spaccata, Pasolini ti vide così.

I TURCHI IN FRIULI. Immagine del titolo dalla prima pagina di Die Türken in Friaul, I Turchi nel Friuli, di Pier Paolo Pasolini.
„Dopo Trieste comincia in effetti qualcosa di ‘diverso’. Io, almeno, in Italia non ho mai visto niente di simile. È vero: potrebbe trattarsi, di una delle tante forme diverse in cui consiste l’Italia. Ma sul fatto, comunque, che qui non sia Italia non c’è niente da ridire. Per me particolarmente (che da bambino ho vissuto a Idria) questa diversità, che coincide, nel profondo, con qualcosa di familiare, è quasi un trauma. Come nei sogni tristi con stupendi paesaggi”. Per molti di noi, una prima scoperta: da bambino Pier Paolo visse a Idria, la cittadina del Carso sloveno nota per le sue miniere di mercurio e per i suoi merletti.
„Non dirò che il paesaggio, in Istria, sia oggettivamente stupendo; però è originale, unitario, e splende su esso – sui suoi ruggini dolorosi – un solicello indicibile”. Sarebbe utile evidenziare queste parole su qualche dépliant turistico, oltretutto. Ma Pasolini non le scrisse certamente a questo scopo. Gli sembrava di essere tornato bambino, all’età di nove anni, ritrovando qualcosa che apparteneva ai suoi ricordi. „Insieme all’antica familiarità (quella dimenticata aria respirata da bambino, a nove anni) c’è in questi luoghi anche qualcosa di comune a tutti i luoghi rimasti indietro, in un altro tipo di civiltà, che sopravvivono qua e la per l’Italia e per il mondo”.
Fermiamoci ancora una volta, e ricordiamo l’epoca in cui P. P. Pasolini scriveva la sua rubrica non a caso intitolata „Il caos”. Era ossessionato, in quel periodo, dalla minaccia incombente, secondo lui, dell’avvento di un „universo orrendo” del potere e del consumo, che „inesorabilmente corrompe ogni civiltà passata e inevitabilmente contagia ogni suo oppositore fino a coincidere con l’intero mondo”, come commenta il Ferretti che, interpretando Pasolini, vede negli scritti del „Caos” una “lettura disperata della realtà contemporanea e la prefigurazione di un futuro angosciante” nel quale avrebbero finito per estinguersi le „storie particolaristiche” e nazionali, sarebbero state crudelmente represse le „diversità”, liquidati il „sentimento”, l’avventura, il „romanzesco”, distrutto il „vecchio mondo” della bellezza; nel quale sarebbe stata stravolta la „qualità della vita”; un mondo di „unificazione”, di „omologazione” tecnologica, mosso da un „mito” sovvertitore di ogni valore tradizionale e cancellatore di „tutto il passato”, un mondo di consumismo che avrebbe scatenato l’aggressività individuale.

PASOLINI. Pier Paolo Pasolini e Enrique Irazoqui, in un momento di pausa, dinanzi allo struggente paesaggio dei Sassi. Sullo sfondo a destra seduto, Maurizio Lucidi, aiuto regista. Foto: Domenico Notarangelo.
Tuttavia, anche in questa che Ferretti definisce giustamente una „visione immobile e disperata”, Pasolini sa vedere dei barlumi di speranza forniti dalla „diversità” che tenacemente sopravvive, da un „vecchio mondo umanistico” che è dei padri e che in qualche terra non corrotta – come gli parve essere l’Istria – sopravvive teneramente. Egli scrive per l’Istria: „Vecchi contadini, coi loro figli piccoli; case sperdute nei crinali soleggiati, dove immalinconisce la domenica; un certo odore di focolare, o di aria gelida. Con questi antichi aspetti di vita, sopravvivono, ad essi strettamente incatenati, antichi sentimenti”. Che si avvertono nell’aria. „Così, con questi gesti, questo ritmo, questi sentimenti, l’uomo è vissuto; e si è accontentato di vivere, per tanti secoli. Qui, in questa terra, quei secoli sono ancora il presente”.
L’Istria che conserva „antichi sentimenti” nei suoi aspetti antichi fa (o faceva) da contrappunto consolatorio a un mondo traumatizzato che lo scrittore e poeta si era appena lasciato alle spalle, lasciando Trieste; quegli antichi aspetti e antichi sentimenti sono puntati da Pasolini contro i corpi ed i fantasmi già incombenti, dirò con G.C. Ferretti, del temuto „universo orrendo”. Non si creda però che Pasolini fosse un ottocentesco romantico alla Jean Jaques Rousseau (anche se si possono trovare fra i due molte parentele); perché, pur sentendosi esaltato dalla sua immersione nella primordiale naturalezza di uomini e ambienti dell’Istria, egli resta uomo di contraddizioni, lacerato, e si sente stringere il cuore, come ci svela nel passo seguente: „La mia infanzia e la mia esperienza di altri luoghi simili sopravvissuti, mi stringono il cuore, sinistramente e festosamente”.
Ma più che Pola, quel che affascina Pier Paolo Pasolini nel suo viaggio di fine gennaio 1969, descritto sul n. 6 dell’annata del Tempo, è la borgata di Fasana. La Fasana di venti anni fa non del tutto soffocata. „Fasana è un dolce paesetto veneto, coi suoi vicoli sul mare: i selciati sconnessi e grigi; i piccoli porticati; la gente rada e triste che parla un veneto bellissimo (hanno dimenticato l’italiano, e per loro ormai l’italiano è il dialetto). Davanti a Fasana, nel cielo fin troppo dolce e azzurro, si stende l’isola di Brioni. C’è Tito. La gente ne parla con un tono spento e allusivo. Qui, non c’è dubbio, non siamo ALTROVE: questo è un luogo tipico dell’Italia. Ora io mi chiedo: se fossi di Fasana, o di Pola, sentirei la nostalgia dell’Italia? Sentirei, come in un sogno, il bisogno di sentirmi cittadino di una nazione perduta e che ha dato per sempre i suoi caratteri al mio paese? Forse, se fossi un uomo semplice, sentirei questa nostalgia e questo bisogno. Se fossi invece quello che sono – cioè un uomo complicato – penso che troverei stupenda questa Italia non italiana: costa azzurra e tenera lungo un entroterra diverso”.

PASOLINI. Un’immagine di Pier Paolo Pasolini. Fra le sue battaglie anche quella contro la progressiva scomparsa delle lingue minoritarie italiane, che contrastò scrivendo alcune sue poesie in friulano, la lingua della sua infanzia.
Basterebbe questo brano per far discutere per due giorni duecento intellettuali istriani e no, raccolti intorno a una tavola rotonda. Ma io credo che la gente semplice di Fasana non si pone le due domande difficili poste da Pasolini. Se una nostalgia c’è, a Fasana come altrove in Istria, negli istriani parlanti veneto o il dialetto locale, è quella dell’identità istriana genuina che in parte è andata perduta per forzate sovrapposizioni. Essi, comunque, trovano certamente stupenda questa loro amatissima „Italia non italiana”.
A proposito della quale voglio raccontare qui quello che mi capitò un giorno di primavera mentre, parecchi anni addietro, viaggiando da Parenzo verso un paese dell’interno sull’auto dell’amico Musizza, all’epoca presidente del Circolo Italiano di Cultura parentino. Prendemmo a bordo due ragazzi croatissimi che tornavano dalla scuola croata. Che fossero di etnia croata ce lo dissero loro, e con un punta di orgoglio, ma con noi e tra di loro parlavano il dialetto veneto. Perché? E da chi lo avete imparato in un paese lungi dalla costa, a trent’anni dall’annessione dell’Istria alla Jugoslavia? Rispose il più grandicello, sui dieci anni: „El nono ne ga dito che noi istriani dovemo saver el crovato e l’italian, sinnò che razza de istriani semo?”. Anche per loro il dialetto veneto era italiano ed in quell'”italiano” si riconoscevano istriani. “Nazione e cultura – scrive Pasolini nelle sue note sull’Istria – sono due nozioni che devono disgiungersi, anche se una secolare abitudine le mescola dentro di noi.”
A Fasana Pasolini, pur di fronte a quel cielo sin troppo dolce e azzurro ed a quella costa tenera, ebbe pensieri non lieti. Perché? „Perché questo peso e questa tristezza su Fasana? Perché questo dolcissimo sole riesce quasi opprimente come in un sogno inesprimibilmente angoscioso? Non c’è ragione di sentirsi, in quanto abitanti di Fasana, in uno stato di dolore storico, sia pur sordo e abitudinario. La storia non coincide con quella di una nazione. La storia è una storia di culture… Ma chi sto convincendo? Forse anche, in parte, me stesso, perché anch’io sono in parte, in una parte profonda, un abitante di Fasana, che qui ha avuto nove anni, e ha fatto esperienza di un’altra vita, di un’antica vita”.