Trieste città magica e seduttrice, nella quale patria ed esilio diventano la stessa cosa.
di FABIO FINOTTI
Direttore Istituto Italiano di Cultura di New York
Ci sono città scritte sulle pagine, prima che sulle pietre. La Parigi di Baudelaire e di Zola, la Bruges dei crepuscolari, e ancora la Lisbona di Pessoa, o la San Francisco della Beat Generation. Quando camminiamo sui quei marciapiedi abbiamo una specie di vertigine. Siamo ancora noi – esseri in carne ed ossa – o personaggi in un libro? L’attimo che fugge – il cane che svicola, la vecchietta che avanza faticosamente, il bottegaio che si affaccia a fumare sulla porta del negozio – non sarà il capitolo di un romanzo destinato a durare nei secoli? Trieste è una di queste città magiche.
Il castello di Miramare sembra messo lì, in certe sere d’estate, per dirci di non credere alla realtà che ci circonda: viviamo in una splendida illustrazione, e c’è qualcun altro che ci guarda e ci legge, sognando di essere al nostro posto. Ci viene il dubbio perfino che qualche chilometro più avanti il sentiero Rilke non esista, e sia stato inventato dalle Elegie Duinesi, condensando l’aria del mare Adriatico in forme inaspettate come i versi che lo cantano.
Non fu questa però questa la mia prima immagine di Trieste, quasi trent’anni fa. Venivo da una città scritta dai letterati in modo ancora più profondo, perché disegnata, inventata, progettata da loro. Venivo da Padova, dove le immagini del Battistero risalgono a uno schema del Petrarca che forniva anche la sceneggiatura per la grandiosa Sala dei Giganti della Reggia Carrarese. Il padre della nostra lingua, il Bembo, aveva ispirato il disegno del suo palazzo in via Altinate.
E a Padova aveva lavorato l’ultimo umanista, Giò Ponti, autore nel nuovo Rettorato di una Basilica sospesa tra ragione e favola, tra Galileo e l’Alice di Lewis Carrol. Rispetto all’armonia e all’ospitalità classica di Padova e del Veneto (anche Palladio, padovano, era allevato da un letterato come Trissino), Trieste mi pareva chiusa, fredda, quasi ostile. A differenza delle città venete – scritte da umanisti per umanisti – Trieste era praticata dai suoi poeti dopo che altri – politici, economisti, uomini d’affari, commercianti – l’avevano costruita. Camminando per le sue strade, però, capivo che questa impressione era incompleta. Gli scrittori triestini avevano un rapporto duplice con il loro spazio: di estraneità ma insieme di appartenenza.

MARE. Opera di Dino Predonzani, Tempesta al Nord, facente parte della Collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste.
Mi ricordo l’emozione con cui, arrivando in via del Lazzaretto Vecchio, lessi per la prima volta la targa che riporta le parole di Saba: „C’è a Trieste una via dove mi specchio / nei lunghi giorni di chiusa tristezza; / si chiama Via del Lazzaretto Vecchio”. C’era tutto quel che non avevo capito in quei versi. L’estraneità di palazzi alti, austeri, senza gli affabili portici delle città padane. Un’estraneità che a Saba faceva sentire la via quasi come una prigione. Ma c’era anche l’intimità che affratellava quella prigione al poeta, e la trasformava nell’emblema del suo stato d’animo.
Gli splendidi libri di Claudio Magris mi aiutavano in questa traversata, dalla diffidenza all’amore, e via via intendevo le parole di Slataper: „Noi vogliamo bene a Trieste per l’anima in tormento che ci ha data”. E i saggi di Elvio Guagnini, di Katia Pizzi, e più recentemente di Cristina Benussi (Confini. L’altra Italia, Scholé 2019) mi suggerivano Trieste non solo come memoria, ma come progetto, modello di comunità futura.
Mai sentirci interamente a casa nostra, mai crederci esclusivi padroni del nostro spazio. Ecco il vero insegnamento che veniva dai pensatori capaci di guardare con occhi acuti all’oggi e al domani: dal Remotti di Contro l’identità al Fabbro di Identità culturale e violenza, al Sennet dello Straniero. Due saggi sull’esilio. Trieste “altra”, ma insieme “nostra” rispondeva e risponde proprio a questo invito: sempre divisa e sempre fusa nelle sue fisionomie, sempre scostante e sempre seduttrice, come se solo in questa bizzarra città, patria ed esilio fossero capaci di diventare la stessa cosa.