Kemal Monteno, fra i cantautori più amati nei Balcani, dalle radici isontine, con i suoi canti durante il conflitto del 1922 trasmise coraggio e speranza.
di GIACOMO SCOTTI
A Sarajevo la guerra arrivò nel 1992, esattamente trent’anni fa, e fra le tante storie di coraggio di quel conflitto durato sino al 1995, c’è quella di un musicista e cantante dalla radici isontine, Kemal Monteno. Il padre si trovò nella città bosniaca, da Monfalcone, con la divisa da soldato sull’onda delle vicende della seconda guerra. A Sarajevo si innamorò di Bahria e nel 1948 nacque Kemal, deceduto nel 2015, a cui dedichiamo questo ricordo.
Kemal Monteno è stato uno dei più celebri cantautori dell’ex Jugoslavia, adorato da milioni di appassionati della canzone, dalla Bosnia alla Slovenia, dalla Croazia al Montenegro e alla Serbia. È Kemal Monteno: nome bosniaco-musulmano, ma cognome italiano. Nel 1992 mantenne fede a una promessa fatta in aprile: rimase nella sua città natale martoriata per condividere con i suoi concittadini la durissima condizione di assediati. Durante i mille e più giorni di assedio, sotto una continua pioggia di granate, egli continuò a cantare per infondere coraggio e speranza.
Uscì la prima volta da Sarajevo dopo l’inizio della tregua di Natale 1994 e la seconda volta nel marzo 1995, per portare prima in Italia e poi in Croazia le canzoni da lui composte durante la guerra per dare forza e fiducia ai trecentomila Sarajliani rimasti. Dopo Dayton non si è più fermato. È stato anche a Fiume, dove l’ho incontrato, per ritrovare gli amici della “Mela rossa” con i quali aveva inciso l’album “Con la primavera” nel lontano 1990.
In oltre trent’anni di carriera – compone e canta dal 1966 – Monteno non aveva mai parlato di suo padre italiano. L’ha fatto nella sua ultima sosta a Fiume, rivelando come Osvaldo Monteno finì a Sarajevo, nella divisa di soldato, nel corso della seconda Guerra Mondiale. “Dapprima si innamorò della città, poi di mia madre Bahria. Così se la sposò, decise di restare, mise radici a Sarajevo dove sono nato, frutto di due innamoramenti di mio padre. Certo, ha fatto diversi viaggi nella sua città natale, ma ogni volta ci è rimasto pochi giorni. I parenti hanno cercato di trattenerlo, ma lui non ce la faceva a vivere senza Sarajevo.”
Inutile aggiungere che Kemal Monteno parlava correttamente due lingue, quelle dei suoi genitori. Il canto e la musica, mi disse nel nostro incontro, li ha ereditati dal padre che gli ha trasmesso invece la passione per il calcio: da ragazzo sognava addirittura di fare il calciatore. (Suo padre faceva il custode dello stadio “Koševo” che ha visto gli incontri delle più celebri squadre jugoslave fino al 1991). Ma una bella voce l’aveva e, sin da bambino, a scuola, lo obbligavano a cantare, lo mandavano a competizioni canore fra scuole.
Alla fine la cosa gli piacque: cominciò egli stesso a scrivere canzoni partecipando al Festival dei giovani cantautori jugoslavi a Subotica, poi venne il Festival di Abbazia, la Sanremo jugoslava, e chi scrive conobbe Monteno per la prima volta allora, nel 1967. Aveva 19 anni… “Quella volta la folla non mi intimoriva, cominciai a tremare più tardi, quando il mio nome divenne famoso…”.

KEMAL MONTENO. Così sosteneva Monteno: “Ascolto le mie registrazioni di 30 anni fa e quelle di oggi. Il tempo ha dato alla mia voce un bel colore. La mia voce non è fenomenale, ma quando canto dal vivo non ci sono errori. Ho un amico che scrive poesie. La sua voce non è bella, è brutta, ma quando pronuncia la sua poesia alla Casa della Cultura, tutti gli studenti pensano che sia incredibilmente bella e dolce. È questo lo splendore interiore”.
Le canzoni diventate celebri di Monteno, patrimonio di alcune generazioni, non si contano più, e sono tutte di amore. Una felice combinazione della canzone “all’italiana” e della mesta “sevdalinka” bosniaca, tanto che il cantautore definì il proprio genere “sevdalinka all’italiana”. Sevdalinka deriva da sevdah, che significa sospiro o spasimo d’amore. Kemal mi spiegò: “Quand’ero bambino e poi ragazzo trascorrevo le ferie scolastiche a Monfalcone, e là mi entrarono nell’orecchio i motivi italiani. Quando tornavo a Sarajevo e ascoltavo le sevdalinke, nella mia testa si creava una miscela; così, ecco, è nato il mio mondo di comporre e cantare canzoni”. Agli inizi della carriera cantava esclusivamente canzoni italiane.
Quando gli chiesi di parlarmi delle sue esperienze a Sarajevo durante la guerra 1992-1995, delle distruzioni subite dalla città, della tragedia di tanti suoi amici, della sua stessa vita in quella città bombardata e semidistrutta, Kemal Monteno rispose con poche parole: “Come vedi, sono rimasto vivo. È stata dura, ma la testa è rimasta attaccata al collo”. Ci furono lunghi periodi, però, che non riuscì a scrivere un verso, una nota. “Non per le cannonate e le bombe, ma per la tragedia che ci aveva colpito, che nessuno si aspettava.”
La prima canzone che finalmente riuscì a scrivere, fu in realtà una lettera a un mio amico, il cantautore croato Arsen Dedić. ”La scrissi da Sarajevo e fortunatamente giunse a destinazione a Zagabria. Non lascio la città, gli scrissi, perché sta qui, a Sarajevo, tutto ciò che è mio e che amo. E questo mio sfogo divenne canto”.
Una delle più belle canzoni di Kemal Monteno è stata ”Sarajevo, amore mio”. Nei primi giorni di pace, con questa ed altri suoi cavalli di battaglia venne in Italia, cantando a Venezia insieme a Sergio Endrigo. Nell’occasione andò a cantare anche in un carcere femminile, dove le detenute lavoravano a maglia, confezionando cappottini e vestitini di lana per bambini e bambine di Sarajevo.