Nel capolavoro di Hillman, “Il codice dell’anima”, l’esplorazione dei nostri vissuti e della spinta al nostro agire che ci rende unici e irripetibili.
di LIA SILVIA GREGORETTI
È singolare come, nell’esperienza dei giovani d’oggi che decidono di vivere le loro aspirazioni più alte all’estero, i cosiddetti expat, si riverberi l’eco del Daimon, l’altra parte di ciascuno di noi, che a suo modo guida a percorre la propria strada, quella giusta per la propria evoluzione e per portare i propri talenti e abilità nel mondo.
Nella nostra storia, e soprattutto nella nostra infanzia, c’è un filo conduttore che ci parla di lui e del nostro talento, poiché è durante la nostra infanzia che esso si manifesta in modo evidente. È una forza amica che spesso parla con un linguaggio magico: attraverso coincidenze e sincronicità, attraverso stati di innamoramento per qualcosa o per qualcuno, con sensazioni di entusiasmo e emozioni, ma anche con accadimenti dolorosi che portano a cambiare strada, riflettere e scoprire nuove risorse che non si sapeva di avere.
Nel parlare di Daimon, il pensiero corre immediatamente a James Hillman, il più celebre allievo del mitico psicanalista Carl Gustav Jung. Dice quindi Hillman ne Il codice dell’anima, un libro che va considerato come la bibbia della ricerca della felicità: “Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un Daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di essere venuti vuoti. È il Daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino”.
Hillman si rifa al mito platonico di Er, eroe che muore e risorge dopo dodici giorni: la sua anima appena uscita dal corpo si unisce a molte altre e camminando arriva in un luogo divino, dove i giudici esaminano le anime e pongono sul petto dei giusti e sulle spalle dei malvagi la sentenza, ordinando ai primi di salire al cielo e agli altri di andare sotterra. Ordinano quindi a Er di ascoltare e guardare ciò che avviene in quel luogo per poi raccontarlo. Ed ecco il racconto di Platone: “Non sarà il dèmone a scegliere voi, ma voi il dèmone […]. La virtù non ha padroni; quanto più ciascuno di voi la onora, tanto più ne avrà; quanto meno la onora, tanto meno ne avrà. La responsabilità, pertanto, è di chi sceglie. Il dio non ne ha colpa”.

DANEO. Romeo Daneo, Albero, collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste.
Quindi sta a noi scegliere di percorrere la nostra strada o allontanarcene, il che ricorda decisamente l’episodio evangelico dell’Annunciazione, allorché Maria, visitata dall’Arcangelo Gabriele, risponde “avvenga per me secondo la tua parola”, accettando quindi il disegno che era stato pensato per lei. Al contrario, in un’occasione identica, Zaccaria dubita del messaggio dell’Arcangelo e perciò diventa muto, come punizione per non aver accolto il proprio percorso così come mostratogli dall’essere sovrannaturale. Infatti il Daimon, componente ineludibile del nostro io, a volte può essere perso di vista, non coltivato, accantonato, ma prima o poi tornerà per possederci totalmente, per definire la nostra immagine, per far emergere quello che chiamiamo il “vero io”.
Ci si accorge di questo processo soprattutto in retrospettiva, guardandosi indietro, come se fossimo giunti dove siamo attraverso un percorso ben segnato da tappe precise. Ciò lo si nota soprattutto nelle persone di successo, spesso nate o cresciute in contesti disagiati che hanno creato il terreno fertile su cui è fiorita la loro anima, per parafrasare De Andrè. Spesso lo chiamiamo destino, e lo ritroviamo soprattutto nelle biografie dei grandi personaggi le cui vite sembrano dipanarsi appunto come un’opera d’arte.
Il Daimon si palesa anche nella bellezza e nella sua ricerca. Ma dove trovare la bellezza oggi, un’epoca in cui a farla da padrone è la tecnica, la produttività, la prestazione? Solo nell’anima, vituperata in quest’epoca post-illuminista in cui solo ciò che è razionale e riconducibile alla scienza può passare il vaglio critico. Perché, nonostante tutto il controllo e la gestione pianificata che la tecnologia sempre più avanzata aiuta a portare nelle nostre vite, continuiamo a essere preda dell’irrazionale: il dolore, l’amore, l’immaginazione.
E forse è proprio per questa iper-razionalità che sempre più si fa strada il dolore nella quotidianità: la parte più intima dell’essere umano lancia un grido di dolore, tanto più la si cerca di schiacciare, tanto più essa grida per essere ascoltata e accolta. Non è un caso se più del 50% degli americani fa uso di psicofarmaci, più del 20% in Italia (cifra che arriva al 54% oltre i 65 anni di età), e questo è un sintomo di una sofferenza diffusa.

DANEO. Romeo Daneo, Gatti e uccelli. Collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste.
Stupisce che il paese con il più alto tasso di diagnosi di depressione sia la Germania, tasso che decresce mano a a mano che si scende verso sud. Regioni italiane come Sicilia, Calabria, Puglia e Campania riportano dati davvero bassi per quanto concerne l’utilizzo di psicofarmaci: si accerta così l’ipotesi che il disagio emotivo serpeggi più frequentemente in contesti in cui le persone sono impegnate in attività produttive e quindi più competitive, con un maggiore livello di pressione e di aspettativa sociale.
Impegnati costantemente nel raggiungimento di obiettivi produttivi ed economici, impegnati febbrilmente nel lavoro, ci si dimentica di sé stessi e delle proprie passioni, ci si dimentica di “fare anima”. Eppure è fondamentale prendersi del tempo per conoscere sé stessi, che è la condizione indispensabile per diventare ciò a cui la natura ci ha predisposti. E realizzare se stessi è il segreto della felicità, anche secondo sant’Agostino, che diceva: volo ut sis, voglio che tu diventi ciò che sei.
E lungo la strada verso l’autorealizzazione la vita ci ha assegnato questo compagno, che già Platone chiamava Daimon, che la religione cristiana ha poi mutuato in angelo custode, quella figura invisibile che ci guida e protegge. È la personificazione della nostra vocazione, è ciò che siamo chiamati a fare in questa esistenza. E se non lo portiamo a compimento, ecco la sofferenza che come uno tsunami ci travolge quando ce ne allontaniamo troppo. Il senso di vuoto, di mancanza, di insensatezza, il sentirsi come un criceto su una ruota, che corre corre ma alla fine non arriva da nessuna parte. Ricorda Umberto Galimberti, grecista impenitente, che già gli antichi greci chiamavano la felicità eudaimonia, ossia buona (eu) riuscita del proprio Daimon.

DANEO. Romeo Daneo, Colline gialle. Collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Trieste.
Ma cosa significa “fare anima”? Portare la nostra psiche nella vita, e considerare la vita come un’avventura psicologica vissuta per amore della nostra anima. Ponendosi nella vita con l’atteggiamento del viaggiatore, del bimbo che gioca, dell’amante o dell’artista, le pareti della prigione dell’io diventano osmotiche, fanno passare nell’ io l’intensità delle altre dimensioni di coscienza. A tal proposito, già Jung, sosteneva che il più grande problema dell’uomo occidentale è l’essersi convinto che l’ io sia la totalità della coscienza: pensiamo di essere solo la voce che ci parla nella testa. A causa di questa convinzione, abbiamo dimenticato di visitare interi territori della nostra psiche, che ritornano a farsi sentire sotto forma di dolore, di incubi, di infelicità.
Ma interviene Hillman a rincuorare: “Se il sintomo non è una cosa cattiva, non dobbiamo più usare metodi cattivi per farlo andare via”; l’unica cosa che possiamo e dobbiamo fare per accontentare il Daimon è coltivare la ghianda. Quella della ghianda è la teoria principe di Hillman: portiamo tutti un’immagine innata dentro di noi, come se fosse un seme. Un seme di quercia nel corso del tempo darà vita necessariamente a una quercia, non a un pino né a un frassino o a un abete. Ogni albero di questa specie è unico e diverso dagli altri, tuttavia è pur sempre una quercia.
Allo stesso modo, noi esseri umani siamo tutti uguali nel nostro essere diversi: ciascuno con i propri talenti o la propria vocazione. Quindi siamo come ghiande potenzialmente querce, soggetti a intemperie, malattie, condizionamenti esterni, potature anzitempo, giardinieri incompetenti, genitori castranti. Ma nelle giuste condizioni e con una cura attenta per la nostra piantina, che albero maestoso possiamo diventare!