Dalle merlettaie, alle alessandrine: nell’emigrazione il cammino delle donne non è stato facile, ma le loro storie hanno molto spesso tratti sorprendenti. Immagini e memorie di donne migranti.
Sono passati quasi quindici anni dal convegno organizzato all’Università di Udine dal suggestivo titolo: “Dialogare con la poesia: voci di donne dal Friuli, alle Americhe, all’Australia”, protagoniste le poetesse migranti. Iniziativa volta a far conoscere la sfaccettata realtà delle esperienze femminili Oltreoceano. Sull’onda di questo tema nello stesso periodo venne realizzata anche una pubblicazione dal titolo “Immagini e memorie di donne migranti” conservata nell’Archivio Multimediale della Memoria dell’Emigrazione Regionale, curata dal professor Antonio Giusa.
Il ricco archivio dell’AMMER raccoglie 11 mila fotografie e 500 interviste. Sono chiavi di lettura per interpretare un universo, quello dell’emigrazione delle corregionali nel mondo, che è stato oggetto di molte analisi, ma che rimane sullo sfondo dei flussi che sono normalmente coniugati soprattutto dal punto di vista maschile. Eppure non hanno avuto un ruolo marginale, tutt’altro. In ogni caso, il cammino delle donne nell’emigrazione non è stato né facile né indolore. Dalla letteratura che ricostruisce le loro storie individuali e collettive traspare come spesso si sono trovate di fronte a concrete difficoltà, a volte a situazioni di sofferenza.

ALBUM FOTOGRAFICO. La copertina del libro Immagini e Memoria delle donne migranti.
Affiorano da molti racconti, accanto alle esperienze familiari e matrimoniali più comuni, e alla loro trasformazione nel corso della sequenza generazionale, anche i mutamenti del ciclo della vita domestica, dei riti privati e delle cerimonie collettive indotti dalla nuova condizione di vita. Non mancano i casi di successo e le affermazioni professionali o artistiche favorite dal valore del portato femminile ancor prima dell’emergere della retorica delle pari opportunità propria del cosiddetto politically correct. Che si tratti di storie di ordinario vissuto o di chi può vantare posizioni di eccellenza vanno tutte assieme considerate e valorizzate, non possono essere messe al margine.
Nella bella immagine di copertina del volumetto del professor Giusa spicca una sorridente Monica Buscaglia in viaggio verso Montevideo sul transatlantico Conte Verde nel 1927. La nave affrontò il viaggio inaugurale da Genova a Buenos Aires il 21 aprile 1923, per essere in seguito trasferita sulla linea Genova-Napoli-New York. Rimane famosa, fra l’altro per aver trasportato la nazionale di calcio del Brasile e tre delle quattro nazionali di calcio europee che parteciparono al campionato mondiale del 1930 disputatosi in Uruguay. Con essa navigarono diverse donne celebri come la danzatrice Joséphine Baker e la scrittrice Dacia Maraini. Ma soprattutto tante altre donne e uomini alla ricerca di un nuovo destino. Non solo Oltreoceano, verso i diversi Paesi europei non mancano le storie dell’emigrazione regionale al femminile spesso di carattere temporaneo.

ALBUM FOTOGRAFICO. Ritratti. Giovanni D’Aita. Emigrazione in Germania, 1901-1927.
A inizio Novecento, da alcuni paesi del Friuli, donne e ragazze partono per le fabbriche di merletti a macchina del cantone di San Gallo, in Svizzera. L’arruolamento, come segnala il prefetto di Udine il 28 dicembre 1911, avviene tramite gli agenti delle fabbriche, che percorrono alcune zone del Friuli. Per il console italiano a San Gallo “il maggior numero di ragazze arruolate per le dette fabbriche proviene dal Veneto e specialmente da Enemonzo, Forni [Avoltri], Montenars, Prata di Pordenone, Brugnera, Tarcento”, tutte località dell’allora circondario di Udine. A San Gallo, le donne operaie occupano una particolare nicchia lavorativa, quella del ricamo a macchina, mentre i loro compaesani maschi sono soprattutto impegnati nel settore edile.
Una testimonianza ci fa conoscere meglio questa realtà: “Mia madre [Teresa Del Fabbro] era del 1886 ed è andata in Svizzera prima della prima Guerra Mondiale insieme ad altre donne del paese […] Si era trovata bene: vivevano tutte insieme e facevano pezzi a macchina in una fabbrica tessile. Cercavano di risparmiare il più possibile, per mandare soldi a casa. A volte mangiavano pane e cioccolato per non spendere. La mamma aveva vent’anni e si è sposata a Toblat, in Svizzera, nel 1906 con Cadore Luigi, nato a Lauco il 9 novembre 1883. Sono rimasti là fino al 1911 e quando è nato il primo figlio, nel 1912, erano già rientrati in paese […]”.

IN EGITTO. In cerca di lavoro molte ragazze del nostro territorio attraversarono tutto il Mediterraneo per salvare le proprie fattorie indebitate o per guadagnarsi la dote. Probabilmente la prima “aleksandrinka” aveva lavorato per una famiglia di Gorizia o Trieste che si é trasferita in Egitto, all’epoca una società fiorente, prendendola con sé. In questo modo si è spianata la strada a un’emigrazione di massa di donne e ragazze dei paesini del Goriziano.

Non poche donne della pedemontana del Friuli occidentale si spingono addirittura in Siberia, dove loro compaesani scalpellini di Forgaria e della Val d’Arzino sono impegnati nella costruzione dei viadotti e dei ponti della Transiberiana. Lo segnala in un suo studio Mario Aprea: “Benefica risultava allora la rara presenza di alcune mogli di scalpellini friulani, che avevano coraggiosamente seguito i loro uomini fin laggiù e che volentieri si adoperavano per rendersi utili a tutta la comunità”.
Un fenomeno del Novecento è anche quello delle cosiddette “Alessandrine”, le balie da latte, che partono da diverse realtà della regione, del Goriziano e della valle del Vipacco (dove erano note come “aleksandrinke”) per raggiungere Il Cairo e Alessandria d’Egitto per lavorare presso famiglie benestanti europee dell’allora cosmopolita città africana. Il viaggio in piroscafo da Venezia ad Alessandria d’Egitto (e viceversa) dura sei giorni.
Nel 1882 Emilio Morpurgo osserva che nel piccolo borgo di Povoletto alla periferia di Udine “s’affaccia la povertà quotidiana, inesorata, spaventosa, anche a famiglie di piccoli proprietari, e la causa che spinge questa gente, maschi e femmine, alcune di queste ultime fino nel Cairo, ad uffici di balie (da Povoletto e da Romanzano [potrebbe trattarsi della vicina località di Remanzacco]) al “miserabile delirio” dell’emigrazione, è la mancanza di lavoro”. Si tratta di un flusso consistente di donne che si collocano come personale domestico ma anche come cameriere e levatrici e che si manifesta in larga parte del Goriziano, specialmente nella valle del Vipacco, a ridosso del confine tra Italia e Slovenia, e anche in Istria.

ALEKSANDRINKE. Anche la moda diventa regola per le “aleksandrinke”. I datori di lavoro mostravano il proprio rango sociale anche con l’aspetto esteriore, che influiva anche sulla servitù. Le balie e le badanti indossavano apposite uniformi. Le accompagnatrici delle signore, le cosiddette “dame de compagnie”, dovevano essere magre, belle, fini e vestite all’ultima moda, in modo che la signora le mostrasse con orgoglio.
Una presenza, quella delle donne emigrate all’estero, che è sempre stata significativa sino ai tempi recenti, che in una sua ricerca Anna Treves osserva: “come la donna non ricoprisse affatto, come si credeva, un ruolo trascurabile nei processi migratori, un ruolo improduttivo e di dipendenza dall’uomo”. Le storie ordinarie raccontate dalle corregionali emigrate sono sempre uno spaccato di tenacia e determinazione. Come quella di Edda Cirant, nata a Villa Santina nel 1936 trasferitasi in Inghilterra. Ha trovato lavoro come domestica presso un colonnello inglese che non voleva che lei imparasse l’inglese per tenerla legata alla sua casa, ma Edda l’ha studiato, si è sposata con un emigrante italiano diventato un famoso barbiere, ha fatto valere le sue capacità. Un piccolo esempio di successo.
Un libro recente, “Donne che emigrarono all’estero”, ha raccolto le testimonianze di 34 emigrate che si soffermano di volta in volta su aspetti del proprio vissuto: la vita quotidiana, gli affetti, il lavoro, gli usi e costumi del nuovo paese, il cibo, l’arte, la musica, le bellezze naturali, le atmosfere. Ma le radici restano nel cuore. Afferma Samanda Del Sordo, che vive a Dublino: “Ho cercato di eliminare una parte di me stessa, la mia diversità, per essere il più possibile simile agli altri, per integrarmi. Per poi capire che non potevo camuffare la mia identità, né cambiarla, né tanto meno distruggerla”.