Sono passati trent’anni da quando Fulvio Tomizza venne premiato nella selezione del Campiello con “I rapporti colpevoli”. Giacomo Scotti ricorda il grande autore.
di GIACOMO SCOTTI
Conobbi Fulvio Tomizza quand’era giovane e stava a Capodistria, giornalista. Lo rividi poche volte a Trieste dove si era trasferito nel Cinquantacinque, mi pare, o qualche anno dopo. Una volta, insieme all’astronoma Margherita Hack, presiedette un incontro sui temi della pace, e c’ero anch’io al suo fianco, al tavolo della presidenza. Ricordo di aver fatto con lui un viaggio in treno da Trieste a Milano, incontro del tutto casuale ma indimenticabile per me. Un’altra volta mi imbattei in Fulvio tra Umago e Giurizzani.
Dopo la sua morte ho parlato e scritto di lui più volte a Trieste ed in Istria. Ogni volta che ho incontrato sua moglie Laura passando per via Giulia, dove sta di casa, o in altre sedi triestine, inevitabilmente parliamo di lui, Fulvio. Uno dei suoi ultimi libri, secondo me l’opera letteraria sua più vera, fu lui stesso a donarmelo: I rapporti colpevoli, del Novantadue. Pochi anni dopo ci lasciava.
Spesso mi sono chiesto se Tomizza era o non era, a Trieste, un esule istriano. Per lui, uomo mite, uomo di pace, instancabile tessitore degli intrecci italo-slavi anche nei libri, sia di narrativa che di ricostruzione storica, la “profuganza” non era stata una fuga, tanto meno una chiusura. Praticamente egli continuò a vivere nella sua Giurizzani, in quel di Materada, nella casa paterna, in mezzo alla campagna istriana. Visse l’Istria, scrisse dell’Istria, nell’Istria. Il confine, quando ancora c’era, egli lo ignorava. Di qua e di là, stava sempre a casa sua, tenacemente dentro la propria identità composita.
Dopo essersi rifugiato a Trieste per conservare quella identità linguistica e culturale che ne facevano un italiano, trovò rifugio nella sua parrocchia natale, dove, lontano dai custodi di antichi rancori e separatezze, tesseva la sua rete di convivenze con i “diversi” nei quali si specchiava, riassaporando a un tempo il paesaggio, gli odori, sapori e amori dell’infanzia e dell’adolescenza, “un’armonia (dei padri e dei nonni) in parte sopravvissuta”.

TOMIZZA. Un immagine di Fulvio Tomizza nel 1998.
Là, in quella campagna e in quella vecchia casa rimessa a posto, Fulvio scrisse una decina di opere letterarie, le ultime, “sordo all’eco di condanna degli esuli istriani che lo vedevano dimostrativamente transfuga”. Parole sue. Perché Tomizza odiava l’odio, respingeva le divisioni, cercava e costruiva la pace; lavoro sempre difficile e poco gratificante in queste terre di mezzo. Considerava amico fraterno lo scrittore croato istriano Zvane Črnja e chi, come me, oriundo napoletano, si era fatto istriano. Gli piaceva viaggiare sui traghetti per Fiume e Spalato, in trenino sul Carso sloveno, in auto per Lubiana. Tornando sempre al mare istriano che si estendeva, diceva lui, fino a Giurizzani.
Tomizza fu sempre un uomo di pace; lo fu in vita e lo è anche dopo la morte. È stato un tipico istriano sanguemisto, che si stupiva di chi si stupiva quando lui diceva-scriveva: “Quante stirpi, quanti Novak (“habitanti novi”) si sono incrociati in Istria!”. In sé e nella propria opera cercò di non separare queste varie stirpi, ma, riconoscendole, di stringerle ancora di più nella comunanza delle feste paesane all’ombra dei campanili.
Dopo la morte di Tomizza, uomini di pace e di buona volontà come lui (faccio un nome: lo scrittore istriano croato Milan Rakovac), in ogni caso uomini di cultura di ambedue i lati delle frontiere/confini, organizzano da anni, ogni anno, incontri di pace nel nome di Tomizza, tessendo nuove tele di collaborazione culturale (e non solo) fra italiani, sloveni e croati tra Fiume, Istria e Trieste. Uomini di pace, quali sono quelli riuniti nel Lions Club Trieste Europa, hanno istituito un premio intitolato a Fulvio Tomizza; viene assegnato da cinque anni per costruire pace.
Nato, cresciuto, fattosi uomo e scrittore in un’epoca e in una terra che hanno conosciuto profondi traumi etnici, sociali e familiari tra le due guerre mondiali e per oltre un decennio ancora nel secondo dopoguerra. Tomizza ha cercato di ricostruire non solo idealmente la pacifica convivenza dei popoli di una regione di confine che soltanto per mano e volontà dei nemici della pace è stata tanto dilaniata nella prima metà del Novecento e tuttora ne soffre le conseguenze.
Per sua fortuna, negli ultimi anni di vita, Tomizza fu testimone dell’avvio della riconciliazione, della ricomposizione, di una nuova epoca di pace e di accelerazione di un processo di comune impegno. Era stata preparata, questa nuova epoca, accarezzando con lo sguardo e con la penna “le mille Istrie che mirabilmente prolificano tra mare, costiera e colli dell’interno”. Parole di Andrea Zanzotto.